Siamo qui. Dove tutto quel che tocchi, dalle bilance alla musica ai caratteri con cui mi scrivi, sembra obbligato a diventare digitale, e senza spazio per gli errori. Per il sano torpore di una volta, le pause ferme alla vita, imponenti come le statue alla galleria degli Uffizi. Siamo qui che evitiamo accuratamente di prenderci per scalfirci, ostinandoci a sbriciolarci qualche angolo come vecchi calcinacci di case di Venezia. Camminiamo per i Corsi e le Piazze con gli stessi fili bianchi penzolanti da cui esce musica che ammazza le parole. Lasciamo a un viaggio in tassì la nostra insoddisfatta stanchezza per il ripetersi di viaggi mentali gratuiti e opprimenti. Fino al prossimo weekend. Siamo qui dove le notizie arrivano a pioggia, tutte le cose che possono squillano e si programmano, come la nostra settimana, e il silenzio vero vale oro. E siamo seduti come delle virgole nel bel mezzo degli uffici, dei divani davanti alla tivù, nelle ville al mare ad aspettare ancora, oltretutto, qualcosa di nuovo. Vorremmo andare dietro ai sogni come una bambina insegue una farfalla libera. Per sentirsi come lei, libera. Per un attimo ridurre tutto a un puntino nello schermo galattico del pianeta, come quello della televisione quando si spegne. E sentire. Sentire la vita col pedale abbassato. Al massimo.
Te le ritrovi lì, sono lì davanti in un attimo qualsiasi. Nel fare la spesa, mentre tagli la siepe, quando torni sul bagnasciuga, quando tiri il collo fuori dalla Torre Eiffel e lo rigiri in dentro. In pochi secondi diventi cosciente di una cosa non comprovata. Su un terreno nuovo senza piantare i picchetti del perché.
Ma suona. E’ leggera e suona. E ti prende. Chiunque tu sia. E qualunque cosa tu stessi facendo finisce sotto i binari che se la mangiano distratti. A te interessa solo la destinazione. E ti può incuriosire così tanto da aver paura che i binari ti portino troppo lontano.
L’ho studiata in letteratura, nasce lì in realtà, tra le rime. Ed è uno strano giro che compie, perché in poesia ritorna. Ma seguendo il processo inverso: dai versi alla vita. Attimi di pura poesia. Quel gran vocabolario bianco Zingarelli scrive che dal latino assonare significa «rispondere al suono». Si può risuonare in corrispondenza con un altro suono quindi essendo in assonanza. Ma non si ferma al suono, va oltre. Chiudo questo librone polveroso e so di essere già affascinato. La mia pelle l’ha già sentita quella parola. E anche voi. Assonanza. Ogni giorno. Perché noi viviamo con assonanze e di assonanze. Corrispondenze armoniche di suoni, colori, forme, persone. Intese impercettibili legate al doppio filo invisibile con occhi, coscienze. Sentirsi diventare un tutt’uno con qualcosa. Essere in sintonia. Talmente sovrapposti da non sentirsi diversi.
Siamo qui. In mezzo a questa vita interdetta a chiederci quanto saprà davvero emozionarci ancora. E poi gli occhi attraversano la strada fuori dalle strisce per trovarne un paio che ti sembra di conoscere da una vita, che senti solo il rumore delle porte dello stomaco che si chiudono. Stringi più forte le mani del tuo bambino e vai avanti. Perché è giusto. Sembri una bambola parcheggiata su un bracciolo di una poltrona del salotto con gli sbarrati al soffitto della luce.
Siamo qui in questa inerpicata tra panchine semideserte di piazze tralasciate a spese di computer più affollati a cercare l’aria. L’aria che sfugge dalla città, dalle fessure delle case, dai venti lontani. T’immagino mentre ti siedi per rifiatare. Il tempo di scambiare una parola con la classica ragazza della passeggiata pipì del cane. E ti ricordi forse che il mondo è piccolo, ascolti cose normali ma che t’interessano, assorbi gesti che potresti voler rivedere domani davanti a un caffè. Appeso a quelle ciglia e a quel dondolio di anche. Senti che tutto può essere più leggero se portato in due. Senti le cose che pensi dette da una bocca che non è la tua. Senti i pensieri che si allineano. Chiudi gli occhi, in circolo quella sintonia. E la paura che i binari ti portino troppo lontano.
Siamo qui, nelle curve, tra un piede nella normalità e uno nella tragedia giornaliera a sbattere le ali come colibrì stanchi di troppo vento contro. E poi un posto, un profumo, una canzone, finirci dentro senza un perché, con un trascurabile come. E non voler esserne strappati via. E non voler essere nessun altro, non invidiare niente, non cercare nelle tasche del passato. Con i perché fatti come scalini per salire e non per disperarsi. Con la voglia di stringere qualcosa, qualsiasi cosa, molto forte per fargli sentire che siamo vivi. Vivi. Nonostante. Forte. Assonanze. Che anche se si spegne tutto: assonanze.
Siamo qui a farci graffiare, a farci spostare da cose che non vediamo: assonanze. Pelle, occhi, tempo, gesti, convinzioni, progetti, la coscienza, l’incoscienza, tutti ubbidiscono.
Suona. E’ leggera e suona. E ti prende. Chiunque tu sia. C’è da ascoltare. E forse da tenere, senza troppi perché e con un trascurabile come, per sentire. Sentire la vita non per l’ultima volta col pedale abbassato.