Uno.
– È questa la vita che volevi?
Pensando al passato il tempo sembra diventare uno spacco che si apre, che si strappa. Forse ci si rende conto che ciò che ci aspettavamo era irrealizzabile, prematuro, sbagliato. Forse ci siamo arenati anche noi in quella secca che è il desiderio sterminato, irrisolto e latente. Succede a tutti di farsi promesse e di non saperle mantenere.
– Questo è quello che è uscito fuori, rispondo.
Mi chiamo Mary e sto parlando con un mio cliente mentre finisce di vestirsi. La camera d’albergo di terz’ordine è stropicciata ma intatta.
– Per fortuna mia. Ridacchia.
– Se lo dici tu.
Prende le chiavi dell’Alfa. Sento la scia del profumo amaro che lascia con piccoli passi svelti.
– Allora…alla prossima.
Annuisco. Alla prossima certo.
– Toglimi una curiosità. Non puoi fare a meno di disperarti e cercare di vivere una vita normale?
Gli chiedo.
La domanda non è esattamente amichevole. Ha un qualcosa di paternale misto a consiglio da amica. Inappropriata. Fa male, intuisco. L’aria è gelida. Massimo preme le labbra e prende una boccata d’aria lunga come un ponte australiano, fa cenno di non voler rispondere con la mano, poi lo fa.
– Sembra che io non possa decidere di essere sereno come vorrei. Sono le circostanze che potano i miei sogni. Io di giardinaggio non so niente. Il giorno che non mi vedrai più ci sarò riuscito.
Ognuno è quel che è come nasce, diventa ciò che vuole, cambia se ne ha la forza. Parlo di meriti. Capacità. Circostanze. Mischia tutto e ottieni te. Il vento alza i foglietti pubblicitari da terra. Un’occhiata distratta all’orologio. Lui sparisce. Io mi faccio schifo né più né meno delle altre volte per aver giudicato qualcuno come dovrei giudicare me. Per piangere scompaio nella trapunta.
Due.
Milano grigia. Milano afosa. Milano piena di milanesi con la faccia scura. Milano con i quartieri sporcati dagli extracomunitari, per lo più. Non la lascio però. Ho la forza incoerente di odiare un posto e conviverci. In fondo non è poi tanto diverso da quello che faccio con la mia vita.
È tutta una questione di compromessi. Guarda la gente del mercato di San Donato, che passa all’ora di chiusura pur di raccattare le ultime cassette di insalata che restano a metà prezzo. Non è che non hanno soldi. No, devono avere la borsetta Gucci e gli occhiali da sole da duecentocinquanta euro. Allora lontano dagli occhi di chi potrebbe conoscerli vengono qui in metro e si caricano di buste che trascinano fino a casa.
Oppure Massimo. Io li ho visti i suoi occhi sinceri che mi hanno raccontato degli amori che l’hanno tradito. Adesso non vuole più relazioni serie. Il matrimonio è un concetto così fragile in lui da essere crollato tempo fa tra le unghie di avvenenti ragazze. Allora cerca me, quando la voglia di un corpo vicino chiama. Io sono il suo compromesso. Lui, come diversi clienti è giovanissimo. E già senza sogni.
Guarda la politica, nessuno arriva al posto in cui è seduto se non è sceso a compromessi: ideali contro necessità. La musica, la scrittura: studiano i nostri gusti, fanno una lista delle preferenze e ci danno in pasto ciò che vogliamo sentire, leggere. Compromessi. Guarda l’informazione in Italia: le notizie passano prima per il filtro politico che le modella, perché siano come i finanziatori dei giornali vogliono che sia, a discapito dell’oggettività, della nuda verità. Compromessi. Guarda la mafia, spietata, organizzata, non combatte più lo stato. Ha deciso di entrare nei suoi ingranaggi, corrompere i suoi esponenti, favorirne l’ascesa, favorire e collaborare con piccole medie imprese di gente normalissima come voi che vuole solo costruirsi una vita, ma a cui lo stato non presta i soldi.
E tu che compromessi hai fatto? Lo sguardo è tirato. Sono stanca. Anche di darmi la stessa risposta. Infilo gli occhiali da sole e mi vesto di nero per le vetrine della galleria Vittorio Emmanuele.
Tre.
C’è un momento preciso per tutti in cui si inizia a farsi del male. Lo sappiamo, non lo raccontiamo, lo vogliamo. Forse c’è qualcosa che non riusciamo a dimenticare. Non si riesce a vivere più pienamente. Una parte di noi è rimasta indietro. A una cosa detta. Un errore fatto. Un’immagine vista. Una voce sentita. Un gesto preso o dato. I compromessi iniziano lì. Non siamo più gli stessi.
Non sono i soldi il problema della vita. Lo stress, gli sbattimenti. L’invidia, la lotta coi vicini di casa. Il pregiudizio, le cattive notizie, i rapporti andati a male. La cosa che pesa veramente è sapere che stai facendo compromessi, che per permetterti una cosa buona devi far posto a una meno buona. E il non poterlo raccontare a un cavolo di nessuno. Invidiare tuo figlio che ancora non ne deve fare. Non lo so, io non ho figli. Ma l‘immagino.
Nascondersi. Ma poi la verità te la devi raccontare. Forse a fine vita. Forse davanti a un vuoto improvviso. A un perché più grande del solito.
– Quella faccia lì quando la darai ad un innamorato?
– Dici a me?
– E a chi sennò?
– No ho tempo da sprecare.
– Tu devi ancora innamorarti ancora della vita.
– Senti, piccolo barista incompreso ti pago per il caffè non per le opinioni personali.
– Scusa, scusa, come siamo suscettibili oggi!
Giulio, il piccolo barista, è in effetti l’unica persona a cui io non passi inosservata. Cioè cerca sempre di preoccuparsi di come stia. Al contrario di tutti gli uomini che conosco o che frequento ha rispetto di me. Deve mancargli qualche rotella. Però in fondo ne son felice. Una cosa voglio dirgliela:
– L’amore è per chi nel passato non ha sofferto abbastanza ed è pronto a farlo nel presente.
Devo aver scoraggiato Giulio. Non dice nulla. Annuisce come se sapesse che è vero. Il caffè non è granché buono, come il solito.
Penso che sia più facile essere indifferenti, o addirittura odiare, che aspettare come scemi l’arrivo di qualcuno che possa illuminare la tua vita. Come dicono. In genere poi, chi più lo promette più lo tradisce, già nei piccoli gesti. Nelle motivazioni sbagliate.
Io sono figlia di un amore tradito. Quello di una persona che pensavo speciale. Quella di cui ti fidi sempre. Scendono le lacrime calde qui davanti a questa vetrata. La città passa non curante. I ragazzi passeggiano con speranza. Si tengono a braccetto, si comprano un cane a cui dare affetto. Le famiglie si mandano le cartoline per il Natale, vanno in ristorante per un compleanno. Si baciano quindicenni sulle panchine e nel retro della scuola. Ragazze spingono passeggini. Uomini mettono la foto della famiglia sulla scrivania in ufficio così che i colleghi e la segreteria possano vederla. Si fanno le feste, gli anniversari, i fiocchi celesti o rosa, e i palloncini prima o poi si sgonfiano. E resta l’idea, forse il ricordo, l’anticamera dell’amore. Restano i doveri e i modi per scappare dalla libertà che si è violata.
L’arcobaleno esiste perché vediamo i colori. Di fatto una cosa se non la percepisci in nessun modo, se non hai prove della sua esistenza, non esiste. L’amore esiste perché sentiamo la differenza con l’odio.
Mio padre avrebbe dovuto amarmi. Oppure non avrebbe dovuto farmi venire alla luce. Non c’è la scusa ”io non sono capace”. A proteggere ciò che si ama si impara presto con l’impeto dell’amore. A 12 anni, quando la mamma si assentava cominciò a prendersi cura di me, come diceva lui. Ero una ragazzina gracile con la coda e il cerchietto sui capelli. Ridevo per un nonnulla, pensavo a come diventare una grande disegnatrice, a essere brava a scuola per non deludere i miei, e i ragazzini neanche li guardavo. Cominciai ad avere paura di lui, dei suoi sguardi. Ricordo che ben presto cominciai ad aver paura anche delle assenze di mia madre.
Iniziò tutto un’estate. Il caldo della Calabria è insopportabile. Allora tieni top e pantaloncini.
La doppia mandata della chiave della mia cameretta. Come se fosse necessario, un punto di forza, di autorità presentato inequivocabile. Le sue mani sudicie su di me. Sapevo che ciò che faceva era sbagliato, ma non riuscivo a oppormi. Non potevo divincolarmi dai suoi gesti maliziosi. A volte mi faceva male e non gli importava. Era, doveva essere, il nostro segreto. Un segreto macigno. Non scappavo, tacevo. Poi mi richiudevo in bagno e piangevo. Facevo scorrere l’acqua e il sapone su tutto il corpo con la speranza di levarmi quell’odore agre. Quando la mamma tornava, il papà per non farla insospettire diceva che ero stata irrispettosa e che mi aveva dovuto ricordare l’educazione. Spiegate così le lacrime.
Da un lato continuavo a sentirmi sporca. Dall’altro mi abituavo. Passavano i mesi e la voce che avrebbe dovuto gridare si sotterrata viva. Divenne normale, parte di un rito di famiglia. Persi i freni. Mi lasciai usare senza sapere il perché. Mi isolai dalle amiche della mia età per non correre il rischio di confidarmi. Sapevo che avrei fatto del male a tutta la famiglia dicendo la verità. Soprattutto alla mamma. E lei non meritava di soffrire. Fino ai 18 anni quando poi andai via di casa. Conobbi l’inferno. E ne diventai il portiere con tutto il mazzo di chiavi.
Quattro.
Ci sono cose che a se stessi non si perdonano. Io mi sentirò in colpa per tutta la vita. Perché ho permesso che questo facesse di me ciò che sono ora. Una persona che non prova più interesse, piacere nel rapporto d’affetto. Anzi, tutto mi porta a credere che sia solo l’illusione di un bel mucchio di gente che ha bisogno di un palliativo alle altre sofferenze. Smetto di pensare. Lo stomaco ha ricevuto trenta invisibili pugni. Crollo di nausea.
Vivo nascosta. Le facce della gente mi disprezzano. Io a malapena mi sopporto. Non voglio guardarmi, non voglio pensarmi. Tutto questo corpo dato e ripreso in squallide stanze d’albergo è perché non riesco a smettere. So che da qualche parte qualche donna lo scoprirà e lascerà suo marito. So che non c’è un’emozione vera che valga questo teatrino di cartone. So che il futuro non si cambia col passato. Sapere tutte queste cose non mi fa stare meglio.
Sono un errore. Un meccanismo inceppato. Un compromesso iniziato e mai terminato. Apro il cassetto della cucina. Ci vuole coraggio. Ci vuole disperazione. Ci vuole una promessa da non fare a nessuno. Il manico è freddo. Lo stringo forte tanto che il sangue fugge via dalle vene della mano. La gente passa noncurante come sempre a sporcare i marciapiedi. Io non ho più bisogno di niente. Ho avuto ciò che non volevo e non potrò mai avere ciò che voglio: una vita che ha il senso. Ancora nausea. Mi gira la testa. Ma lo devo fare.
Puntare la parte finale di una lama contro il proprio cuore è una cosa che dà i brividi. Un gioco pericoloso. C’è chi lo fa perché è convinto di varcare con un passo la soglia dell’inferno. Ed è l’unico posto dove a qualcuno gli fregherà di lui. Quando la lama trafigge la pelle si avverte la fitta, e quando raggiunge il cuore questa moltiplica la sua intensità diciamo per cento volte. Poi bisogna avere la forza nel braccio nonostante il dolore di continuare a spingere la lama dentro, lottando contro il naturale riflesso di fermarsi. E in tutto questo cercare di fare meno rumore possibile. Boccheggiare e avere gli spasmi dal dolore. Lasciare solo un appartamento che è da ripulire e riaffittare.
La lama buca il pullover e il primo strato di pelle. Lei chiude gli occhi. Maledice suo padre, se stessa, Milano, la gente che crede ancora che la vita sia bella. Non sa che i rumori su per le scale sono per lei. Il piccolo barista sale con un caffè e bussa con insistenza.
– Apri, lo so che sei a casa. Servizio in camera.
E fa una delle sue risate inappropriate. Ma la porta è aperta. E Giulio non lo sa. Vorrebbe chiederle scusa per l’uscita dell’altro giorno e chiederle di uscire. Sì, insomma. Lui non ci vuole andare a letto. Vuole corteggiarla. Perché è affascinato da ogni suo movimento, da ogni suo segreto. Divertito dalla rabbia che sembra portare appresso e dall’ironia. Vorrebbe insegnarle ad innamorarsi della vita e continuare a farlo insieme a lei. Vuole dirle tutte queste cose e il caffè è solo una banalissima scusa, di quelle che servono.
Se lei sapesse…se lei sapesse prenderebbe quel caffè. E starebbe ad ascoltare. E lo prenderebbe in giro. Il piccolo Giulio che viene a casa sua con un caffè e con un cuore tutto tremante. Queste cose lei non le ha mai viste. Da nessuna parte. Alla fine direbbe di sì. E si accorderebbero per una passeggiata e una cena a base di pesce.
La porta è bussata. Le nocche fanno un altro tentativo. Anche la voglia di vivere e di non disperarsi. Ma siamo ciò che siamo, e in certi casi, non riusciamo ad essere altro.
Così, solo per curiosità, Giulio gira la maniglia per scoprire se sia chiusa la porta. Clic. In quel momento la lama trapassa il cuore già spezzato da una vita. Lei si piega in se stessa. Rotea lo sguardo. Vede lui in piedi che corre verso di lei urlando. Una lacrima, una lacrima grandissima nasce dall’occhio destro. Afferra le mani di Giulio. L’ultima cosa che pensa è che non si può scegliere la vita che si vuole né si può sempre vivere la vita che si sceglie. Si può scegliere di morire per una vita che non si vuole. Giulio ha le maniche sporche di sangue. Piange. Sfila con coraggio la lama e tampona il foro. Ma non c’è niente da fare. Vorrebbe prendere quel coltello e farsi fuori pure lui dal dolore. Ma ha il ricordo di una lacrima, una lacrima versata nella sua mano, da conservare. Tutto il resto, e la vita che voleva, sarà niente
Come sempre tengo a precisare che i dialoghi e i pensieri, i punti di vista sono della storia e non sono quelli dell’autore. Ho conosciuto alcune persone che hanno vissuto storie simili e di loro spontanea volontà hanno condiviso con me alcuni ricordi e sentimenti in proposito, ma non vi è nessun collegamento con questa storia. Il vero dolore che ho percepito in queste persone è indescrivibile. E’ un qualcosa che lascia tracce indelebili. Una cosa immensa quanto ignominiosa. Per questo ho voluto scrivere di questo. Perché è giusto ricordare.
Per capire quanto il problema delle molestie sia grande faccio riferimento ai dati Istat ricavati nell’ambito dell’Indagine multiscopo sulla “Sicurezza dei cittadini” effettuata nel 2008-2009. Questi rilevano che la metà delle donne italiane tra i 14 ed i 65 anni ha subito nell’arco della vita almeno una molestia sessuale. Più di 10 milioni, equivalente al 51,8% delle donne, ha subito molestie fisiche, molestie verbali, telefonate oscene, pedinamenti e ricatti sessuali nell’ambito lavorativo.
Frequentissimi sono i ricatti sessuali per carriera e quelli per assunzione: ripetuti quotidianamente o più volte alla settimana, nell’ 81,7% dei casi la vittima non racconta la richiesta di disponibilità ai colleghi, né tantomeno alle forze dell’ordine. Si preferisce, infatti, celare l’esperienza dietro la falsa motivazione della scarsa gravità dell’episodio (28,4%); dicendo di essersela cavata da sole o con l’aiuto di familiari (23,9%); mostrando sfiducia nelle forze dell’ordine, spesso impossibilitate nell’agire (20,4%); nascondendosi dietro la paura di esser giudicate o trattate male al momento della denuncia (15,1%).
Tra le donne vessate che hanno risposto al quesito, il 57,2 % ha volontariamente cambiato lavoro o ha rinunciato alla carriera, il 2,5% è stata licenziata, il 3,3% ha continuato a lavorare nello stesso posto come se niente fosse, il 2,7% si è messa in malattia, mentre nel 3,8% dei casi non vi sono stati cambiamenti di sorta.