Alle volte fai cosí tanta fatica per raggiungere le cose e le persone che non hai piú la forza per tenerle quanto vorresti. Arrivi stanco al traguardo ad alzare la coppa e pure ragionevolmente solo, perché per vincere devi sacrificare tutto e tutti a occhi chiusi, disciplinarti, controllarti e poi magari non ne valeva la pena. Rotto il sottile muro del sembra. E forse era questo il suo difetto, dedicare troppo tempo e troppe energie alla ricerca ed arrivare con una fine ad ogni inizio. E poi c´era dell´altro. Ogni rapporto sacrificato, ogni andato a male finiva di esistere nel preciso istante che lo decideva. Meccanico. Niente ripensamenti, niente appelli, niente reazioni degli altri che tengano, dediche e foto che incollino. Fabio ha sempre reciso di netto, cose morte e cose vive dalla sua vita, cose del passato e cose presenti, rifiutando spiegazioni e scontri, scenate o magari abbracci, per la pietá o per l´amore.
Mancava sempre quella forza di stare in equilibrio, per gestire le situazioni, le persone. E allora il taglio al posto delle decisioni, che poi anche il taglio é una decisione ma é di quelle semplici, che puoi fare anche irrazionalmente, senza ascoltare qualcosa dentro di te o le persone intorno a te. In poco tempo cose piene di vita diventavano statue di ghiaccio, immobili e delicate e fredde, i volti venivano sostituiti come quando da bambini si sbaglia il posto della figurina e per non strappare il foglio si appiccica semplicemente quella giusta sopra. Solo che quella giusta non arrivava mai. Un movimento sbagliato e dimentichi per davvero. Appiccichi una pila di persone sulle altre. Ti serve il rastrello con le maglie fini per recuperare ancora qualcosa. Esiste una maniera giusta di essere? Qualcuno ci nasce? La veritá é che migliori si diventa ma non per questo i difetti scompaiono, magari li stucchi ma il vuoto dalla nascita resta e ti accorgi che quello che riempie non é quello che vorresti. Non ti resta che piegare l´anima, vestire una faccia e camminare stringendo le spalle. Sperando di vincere una nuova vita, un terno secco.
Un giorno Fabio si stancó di tutto questo. Delle facce che dobbiamo avere per gli altri, delle cose inevitabili che lasciamo capitare nella vita, dei gesti che si svalutano piú di qualsiasi moneta o bene che usiamo, si stancó delle porte che aveva chiuso anche sbagliando, forse sempre sbagliando, di decidere sempre alla stessa maniera. “Bisogna avere il coraggio di fare qualcosa che si pensa sbagliato”. Basta camminare senza fermarsi solo perché si conosce il tragitto, e basta anche avere scadenze troppo corte quando é il cuore che deve scegliere tra le facce e trai cuori. Basta mentire perché é quello che gli altri vogliono sentire, basta decidere e non cambiare idea perché appesi all´orgoglio, basta cercare disperatamente, basta innamorarsi pensando che sia amore e lasciarsi pensando che sia odio. Basta tornare, basta aspettarsi sempre qualcosa dopo l´uguale, basta vergognarsi di sentire male in centro al petto, lo stomaco che si chiude e le lacrime rispedite al mittente. Basta distruggersi per mania, basta leggersi ed essere sicuri di essersi capiti. Basta con le negazioni, che son troppe in una vita e finiscono per rimbalzarti contro finché non ti neghi a te stesso. Basta cercare grandi libertá, che sono le promesse dei pensieri, basta prendere il posto di un altro, la persona di un altro, basta dirsi cose troppo belle che si posso confessare con gli occhi.
Un giorno Fabio si stancò di tutto questo. Camminando lungo via del Corso guardava le vetrine scorrere in technicolor e voleva solo smettere di pensare. Sedersi su una panchina e fumare le sigarette artigianali, fortissime, di quando aveva vent’anni e non conosceva mostri coi quali combattere, ogni notte, tra le coperte e il buio. Arrivato in piazza, scavò nelle tasche alla ricerca del biglietto. Odiava viaggiare in pullman ma sapeva perfettamente che recarsi al lavoro in auto avrebbe comportato ore di disperazione alla ricerca di un parcheggio. Infilava un passo dietro l’altro senza mai sollevare gli occhi verso la pensilina del pullman perché sapeva – ne era certo – che lei sarebbe stata lì. Continuò a camminare fissando l’asfalto, le crepature nel grigio, contando i secondi che l’avrebbero condotto al marciapiede – tre, due, uno – e poi lei. Sapeva che l’avrebbe trovata, infagottata nella lana tricot di una sciarpa troppo grande, gli occhi truccati di nero e qualcosa come un sorriso, appena accennato, tra la sciarpa e gli occhi. E lei c’era, morbida dentro il suo cappotto, le spalle curvate dal freddo e le braccia incrociate al petto. Era la bella delle fiabe, solo un po’ meno bella, non che sia importante, e sempre appena sorridente, l’angolo delle labbra appena sollevato e lo sguardo nero e blu.
Fabio non conosceva lei né il suo nome né le sue strade eppure aveva la sensazione che fosse lì da sempre, lei, sotto la pensilina, tra pioggia e sole, nel mentre delle stagioni. Ogni giorno da tre anni, alle sette del mattino, lei era lì e parlava con tutti ma non con lui. Sorrideva alla vecchietta col cappellino da Mary Poppins e alla donna col pancione, all’uomo che le chiedeva una sigaretta e al mendicante dai centesimi tintinnanti. Chiacchierava, la voce le si apriva e le si chiudeva come il respiro di una fisarmonica – per tutti, ma non per lui. E quel giorno, quel giorno che era arrivato lì fissando l’asfalto, Fabio pensò a quanto fosse speciale, quel non parlarsi. Quel non vedersi se non per brevi istanti, prima che lei giri lo sguardo, che rivolga il suo sorriso a qualcun altro, che offra una sigaretta a quel tizio dalla giacca a quadri. Erano lì, loro due, e non c’erano. Da sempre. Si muovevano nelle proprie solitudini, sfiorandosi senza mai prendersi, eppure era in quello sfiorarsi l’alchimia del trovarsi. L’intuirsi senza mai conoscersi solo per avere il tempo, la voglia, il coraggio di intuirsi ancora. Mai un ciao, un arrivederci, un come stai, eppure sapersi. Salire e scendere dai pullman, sfiorarsi le mani per sbaglio, obliterare biglietti e sparire, senza mai deludersi né ferirsi se non per brevi istanti, quando si guardavano negli occhi per sbaglio e poi si voltavano dall’altra parte per non raccontarsi troppi sguardi. Mantenendosi per non scivolare, per non cadere troppo presto, ritrovati e persi, come pedine su una scacchiera e un’infinità di caselle da percorrere, ancora.
Arrivò il pullman, infine. Lei salì, la scia della sciarpa dietro di sé, come tutti i giorni, come sempre. Poi la sciarpa s’impigliò. Era dietro di lei, Fabio, e vide la lana agganciargli il bracciale. Lei si voltò, lo guardò di uno stupore bambino e sorrise. Tre anni di silenzio ed eccole lì, le labbra di lei che si schiudevano per la prima volta per dirgli qualcosa, qualunque cosa. Lui tremò impercettibilmente e aspettò, immobile, mentre le porte del pullman si richiudevano alle sue spalle. Ma lei non disse. Sorrise più forte, soltanto. Liberò la sciarpa dal gancio del bracciale, lo guardò ancora una volta e si voltò.
Mantenendosi per non scivolare, ritrovati e persi, come pedine su una scacchiera e un’infinità di caselle da percorrere, ancora.
Fabio Pinna e Bianca Rita Cataldi