Autore: Ruta Sepetys
Pubblicato da Garzanti - 2012
Pagine: 290 - Genere: Drammatico
Formato disponibile: Brossura
Collana: Super Elefanti Bestsellers
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La risposta sovietica ai lager nazisti. La storia di Lina, 15 anni appena compiuti, quando la polizia sovietica fa irruzione a casa sua, in Lituania ammassandola insieme ad altre persone verso un viaggio di sola andata fra le gelide steppe russe.
Avevano spento anche la luna, edito per l’Italia dalla Garzanti nel 2011, ristampato nel settembre 2012, è il romanzo d’esordio della scrittrice americana di origine lituana, Ruta Sepetys, su una delle pagine più drammatiche ma ancora poco conosciute del Novecento: l’invasione della Russia di Stalin di Lituania, Lettonia, Estonia e di parte della Finlandia. Definito, già da prima della sua uscita, un romanzo che colma un vuoto di una storia molto scomoda e che facilmente si è dimenticata. Ma Ruta Sepetys non ha mai tralasciato e ignorato le sue origini e la storia della sua famiglia. Per questo ha compiuto un viaggio in Lituania per recuperare la memoria del ramo paterno. L’autrice dunque, dopo essere ritornata nella terra d’origine dei suoi avi, è andata a visitare i campi di lavoro in Siberia, ai quali il dittatore Stalin condannava coloro che dissentivano dal suo credo politico e che riteneva sovversivi. Anche donne e bambini piccoli.
Un’altra tragedia in quei tempi già di per sé tanto bui e travagliati della storia. Sono gli anni della seconda guerra mondiale dove Hitler, nell’altra parte dell’Europa, ha tentato di compiere lo sterminio dell’intero popolo ebraico. E proprio per questo la tragedia dei popoli sottomessi alla Russia e dei dissidenti di Stalin sono rimasti a lungo nell’ombra. Ma da quanto Lituania, Lettonia ed Estonia hanno ottenuto l’indipendenza dallo stato russo, senza spargimento di sangue, molti hanno sentito il bisogno di far luce su quanto accaduto. Come Ruta Sepetys che, nel corso delle sue ricerche, ha interrogato e ascoltato i racconti dei sopravvissuti che l’hanno aiutata a descrivere i particolari più importanti di quel passato di atrocità. Ecco i fatti storici narrati nella nota dall’autrice. Nel 1940 l’allora Unione Sovietica occupò gli stati baltici di Lituania, Lettonia ed Estonia, in base all’accordo che prima della seconda guerra mondiale Hitler e Stalin avevano stipulato per spartirsi l’Europa. Di lì a breve furono emanati liste di proscrizione di persone considerate antisovietiche che sarebbero state uccise, imprigionate o deportate in schiavitù in Siberia. Ne facevano parte soprattutto medici, avvocati, insegnanti, membri dell’esercito, scrittori, imprenditori, musicisti, artisti e perfino bibliotecari. Tutti erano considerati nemici del governo staliniano e aggiunti alla lista sempre più lunga di coloro che erano destinati allo sterminio di massa. Le prime deportazioni ebbero inizio il 14 giugno del 1941. La Sepetys racconta la storia della sua famiglia: una parte di quella paterna riuscì a fuggire, un’altra parte fu deportata e imprigionata.
I personaggi del romanzo sono inventati. A parte il dottore che visiterà il gulag alla fine ed infonderà speranza nei sopravvissuti. E’ la notte del 14 giugno 1941, quando la protagonista Lina, una quindicenne viene costretta, insieme al fratellino e alla mamma, a lasciare la propria casa e la sua terra. Il suo nome, poiché è la figlia del rettore dell’università di Kaunas, è nella lista nera. Del padre non sa nulla da giorni, tranne un breve incontro sul treno, e così sarà fino alla fine perché Ruta Sepetys lascia aperto il finale su questo personaggio. Viene ammassata insieme ad altre centinaia di persone, perfino una donna che ha appena partorito, su un treno, che non doveva essere molto dissimile da quelli che dall’altra parte dell’Europa portavano ad Auschwitz.
L’unica loro colpa: esistere e voler vivere. Tolgono tutto a Lina e alla sua famiglia tranne il coraggio e la dignità. Si rifiuteranno infatti di firmare anche dietro minacce dei documenti che attesterebbero colpe fittizie. Lavorano, dividono il pane e vesti anche con altri prigionieri, come per testimoniare che la solidarietà, pur in tutto quell’orrore, esiste. Lina è coraggiosa e ha voglia di vivere, nonostante tutto e affida ciò che vede e che compie ogni giorno al disegno. Caricature, disegni da varie angolazioni, ispirate dall’arte di Munch, soprattutto dalla drammaticità dell’Urlo che ben rappresenta ciò che Lina vede e a cui partecipa ogni giorno. Orrore e paura si mescolano a disprezzo per quanto i russi riescono a fare a persone inermi ed innocenti. Ma nel campo Lina trova prima l’amicizia che poi si trasformerà in amore per un altro ragazzo lituano. Lina, nonostante tutto, è ottimista e incoraggerà il fratello: Noi vivremo. Noi torneremo a casa. Noi non moriremo. Torneremo nella nostra casa e dormiremo nei nostri letti sotto la trapunta di piumino d’oca. Ci riusciremo. Perché Lina vuole la vita, vuole sopravvivere e vuole ritrovare il padre con i suoi disegni e testimoniare l’orrore che ha vissuto. E’ questo il messaggio che la scrittrice ribadisce nell’epilogo del romanzo, quando nella Lituania ormai libera, viene ritrovata una scatola di legno con un barattolo di vetro pieno di fogli, contenente le parole e i disegni di Lina che si rivolgono a un futuro lettore in grado di capire questa riflessione. La mia più grande speranza è che le pagine contenute in questo barattolo stimolino in lei la fonte più profonda della compassione umana. Spero che la inducano a fare qualcosa, a raccontare a qualcuno. Solo allora potremo essere sicuri che a questo genere di malvagità non sia più possibile ripetersi.
Maria Romagnoli