
Autore: Majgull Axelsson
Pubblicato da Iperborea - Settembre 2016
Pagine: 562 - Genere: Romanzo storico
Formato disponibile: Brossura
Collana: Narrativa

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Miriam ha ottantacinque anni e un segreto che porta con sé. Decide di rivelare la sua vera identità il giorno del suo compleanno ai suoi familiari.

Dopotutto lei è Miriam. E oggi compie ottantacinque anni. Il giorno della vigilia di mezz’estate.
Così inizia Io non mi chiamo Miriam e dopo queste tre righe la storia viene raccontata a ritroso, perché nel giorno del suo compleanno riaffiorano i ricordi.
Miriam, un nome e un segreto celato per tutta la vita. Non per il desiderio di essere qualcun altro, ma per la paura di non essere accettati in una società come quella svedese che anche dopo la seconda guerra mondiale rigetta l’etnia rom. Miriam, o meglio Malika, è una rom, ma aveva una casa stabile in Germania prima della guerra, con la sua famiglia. Di loro non resta nessuno, solo il ricordo di Didi e di Annika, sua cugina. Vengono portati in un campo di concentramento e da lì uscirà in vita soltanto lei. I ricordi del campo di Auschwitz e di quello di Ravensbruck erano stati sepolti dal tempo: il dottor Mengele, il viaggio in treno, le docce fredde e le persone viste morire, la dignità negata e quella che gli zingari hanno saputo dimostrare anche nel campo con una rivolta raccontata nel libro e realmente accaduta.
Miriam vive la vita da prigioniera prima con i rom e poi con i nuovi abiti diventa un’altra persona. È stato per puro caso, durante uno spostamento in treno i suoi vestiti vengono ridotti a brandelli dopo un parapiglia nel convoglio e lei prende i nuovi abiti da un cadavere, quello di un’ebrea Miriam Goldbreg, per non toglierli mai più. Una volta arrivata al campo divenne ebrea e dovette trovare nuove amicizie per sopravvivere, senza rivelare a nessuna delle nuove compagne la sua vera identità. Anche nel campo la classificazione sociale era molto rigida e le rom non erano ben viste perché litigiose e ladre, stereotipi razzisti che non si cancellavano nemmeno all’interno di campi di concentramento. Se avesse detto la verità, se avesse detto di essere rom, non sarebbe stata accettata nella sua baracca. Dopo la guerra fu accolta da Hanna, membro attivo della Croce rossa, che le insegnò le buone maniere e a vivere come una svedese. Lei imparò i nuovi comportamenti e le regole da seguire in modo diligente, per non commettere errori ed essere una cittadina modello, considerata da tutti una ragazza ebrea di buona famiglia sola al mondo.
In Svezia anche dopo la guerra i rom vengono perseguiti ed espulsi anche se provenienti da campi di concentramento.
Miriam durante la sua vita ha dovuto rinnegare più volte la sua eredità culturale: prima all’interno dei campi sia con i tedeschi che con le sue stesse amiche, poi nella sua nuova casa e nella nuova famiglia.
Solo che è difficile tenere tutto dentro per più di settanta anni. È riuscita a mascherare la sua etnia anche con il marito per paura di perdere anche gli unici affetti rimasti.
L’unica persona alla quale poter raccontare la sua storia senza timore è la nipote. Con lei durante una passeggiata racconta quello che lei è diventata nel corso degli anni, vestendo i panni di una ebrea e raccontando l’Olocausto con grande realismo.
In fondo, lei è anche Miriam.
Approfondimento
Il tema fondamentale intorno al quale ruota tutto Io non mi chiamo Miriam è l’identità personale e quella ereditaria. Miriam nel corso della sua vita ha dovuto lottare tra queste due sfere: quella privata e quella pubblica. Fingere di essere ebrea, farsi credere di origini diverse non per fuggire l’Olocausto, ma per sopravvivere anche fuori dai campi di concentramento.
Se nella prima parte del libro ci sembra orribile la vita ad Auschwitz e le condizioni alle quali sono sottoposte le donne prigioniere, ho trovato ancora più triste scoprire che anche dopo la guerra il razzismo era ancora presente e per di più in un Paese liberale come quello svedese nei confronti dei rom.
Il personaggio di Miriam è ben delineato dai primi paragrafi e Majgull Axelsson riesce ad attrarre la curiosità su di lei fin da subito: una serena signora ottantenne con una storia incredibile da raccontare. L’autrice ha già toccato vari temi sociali nei vari libri precedenti e in questo caso riesce in pieno a farci capire la parola appartenenza e a farci conoscere l’Olocausto con un punto di vista diverso. La narrazione scorre fluida e non è mai banale o retorica. Consiglio la lettura del libro anche per coloro che come me, non amano molto letture storiche o incentrate sul tema dei campi di concentramento.
Gloria Rubino
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