
Autore: Francesca Diotallevi
Pubblicato da Neri Pozza - Ottobre 2021
Pagine: 304 - Genere: Romanzo storico
Formato disponibile: Brossura, eBook
Collana: I narratori delle tavole
ISBN: 9788854523890
ASIN: B09JFK95HS

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“Rimasi immobile, guardandola sfilarsi dal collo una catenina che portava sotto la veste. La sua mano si tese verso la mia. «Vostro zio riteneva che avreste saputo che uso farne. Diceva che questa casa vi aspettava»”
Atmosfere stranianti in pieno stile gotico, quelle che pervadono il romanzo d’esordio di Francesca Diotallevi: una narrazione attraversata da un disagio appiccicoso, da un non-detto che intorbidisce i pensieri del protagonista, maggiordomo fresco d’assunzione alle dipendenze dei conti Flores.
Un’inquietudine montante che sembra appestare ogni recesso dell’austera magione immersa nella campagna brumosa di Neive dove Vittorio Fubini fa il suo ingresso, per raccogliere il testimone dello zio appena deceduto, con il quale numerosi discorsi sono stati lasciati in sospeso.
Un segreto inconfessabile, che pagina dopo pagina, sgomiterà per raggiungere la luce. Come un carillon che, messosi d’incanto in moto, fatichi ad arrestarsi.
“«Chi è la signora vestita di bianco?»
Nora sollevò lo sguardo verso di me.
«Maman non vuole che ne parli» sussurrò.”

Con Le stanze buie siamo di fronte ad un romanzo noir potentemente evocativo, trapunto dal duplice filo dei ricordi e delle paure, dai quali il lettore si trova dapprima incuriosito ed in un secondo tempo sballottato, in un gorgo di flashback e sentori di ciò lo attende.
Siamo ai primi del ‘900, tutto comincia con un funerale e con l’agre atmosfera da resa dei conti che ogni morte, volenti o nolenti, lascia dietro di sé.
Un romanzo che scorre verso l’epilogo come un treno lanciato in folle corsa, con pochi personaggi, descritti forse in maniera un po’ caricaturata, a tratti bidimensionale, con una penna impietosa nel fotografare la dimensione aberrata delle personali uggie in cui si avviluppano le loro vite, incancrenite nel rimpallarsi sospetti e maldicenze.
Da un siffatto clima d’inquietudine chiaroscurale il lettore viene a essere naturalmente irretito sin dalle prime pagine del libro, immergendosi in quello che appare un quadro d’insieme emotivamente pericolante e gravido di sviluppi inquietanti: è così che vengono collezionate le prime informazioni sparse sul defunto maggiordomo, lo zio del protagonista, una vita trascorsa con irreprensibile fedeltà alle dipendenze dei conti Flores.
E, più forte di tutto, un rapporto col nipote improntato ad una sincera stima, alimentato al tepore degli affetti autentici, eppure viziato mortalmente da una remora invincibile.
Un invito impossibile da rifiutare, che attira Vittorio in un torbido vortice di reticenze e mezze verità tra le quali dovrà imparare a rimanere a galla, a ricavarsi un proprio punto di osservazione esente dall’oceano di astio che lambisce l’intera tenuta.
Impresa improba, dal momento che, tra le mura signorili della dimora nella quale è andato a lavorare, ad accogliere il protagonista saranno poche certezze e tanti silenzi.
C’era qualcosa nei suoi occhi che mi spaventò. Un abisso torbido. Una disperazione difficile da comprendere.
Ad attendere il protagonista sullo zerbino d’ingresso è il piglio burbero del padrone di casa, il conte Amedeo Flores, proprietario terriero e produttore vitivinicolo, fermamente convinto della fondatezza del cliché del rapporto padrone – servo e intenzionato a replicarlo sine die.
Che, nonostante le perplessità di Vittorio, viene accolto a capo chino.
Quando finalmente la figura volitiva di Lucilla, dama del mistero e moglie schiva, farà la sua comparsa a rinverdire la trama del romanzo, questa spiccherà per contrasto rispetto all’immagine anemica, bidimensionale, che di lei era stata artatamente instillata dalle precedenti parole del consorte: parole smozzicate, che parlano chiaramente di un rapporto al capolinea, forse mai decollato.
Accanto a lei, mano nella mano, il viso spaurito della piccola Nora, che sposterà gli equilibri precari dell’intera vicenda di quel tanto che basterà ad instradarla su un binario inatteso: alta più del brusio vigliacco della paura, si leverà la voce di un dialogo intergenerazionale più forte della morte, votato ad un affetto disperato che si crede antidoto al tempo perduto. Che scuoterà Vittorio e lo spronerà a non darsi per vinto, a sbracciarsi per far luce su un mistero che affonda le radici nell’agonia belligerante di un nucleo familiare che è poco più che uno scheletro disincarnato.
Lungo la sua strada, Vittorio potrà contare sull’aiuto leale di Lucilla, il rapporto con la quale si tingerà di cromie conturbanti quanto inopportune.
Alle mie spalle, la padrona si sollevò dalla poltrona. «Capelvenere» spiegò, venendo in soccorso della figlia. «E il suo significato… è che c’è un segreto. Un segreto fra voi e me».
Gradino dopo gradino, il protagonista – narratore si troverà a combattere una lotta che si svolge primariamente alle fondamenta delle sue stesse convinzioni, la cui posta in palio sarà alta abbastanza da non lasciare adito a compromessi.
Ma adesso basta. Non si può vivere chiusi in stanze buie.
Approfondimento
Il levriero del padrone era nel vano della porta. Teneva le orecchie tirate indietro e, quando dischiuse le fauci, riuscii a scorgere una lunga fila di denti. Eppure i suoi occhi di giada non erano rivolti a me.
Considerate l’incidenza e la rilevanza delle scene a tema spettrale nell’impianto complessivo, Le stanze buie rientra a pieno diritto tra i romanzi sui fantasmi.
Ma fermarsi su questo non renderebbe giustizia all’opera: c’è sicuramente di più in queste pagine, che si dipanano indolenti come un fiume pianeggiante. Un’analisi appena più nel merito permetterà di rintracciare numerosi temi forti che solcano le onde del testo, meritevoli di menzione ben al di là delle presenze evanescenti che infestano l’opulenta dimora stregata.
Ad andare in scena, negli spazi sconfinati eppure angusti della teoria di ambienti nei quali si svolgono i fatti, è innanzitutto l’incomunicabilità, declinata nella duplice veste, da una parte, del dualismo deteriore tra coniugi che sono tali ormai solo di fatto, dall’altra delle superfetazioni posticce che i ruoli finiscono per cucire addosso alla pelle di chi se ne fa carico, eclissandone l’umanità e comprimendola al fondo dell’anima.
Altro tema che rileva è la prepotente commistione feticistica tra luoghi e affetti, in forza della quale i primi diventano sembianti dei secondi, con l’effetto collaterale di tramutarsi in vere e proprie prigioni anguste ed impenetrabili.
Infine, forse fin troppo scontato, l’andante secondo il quale le parvenze sovente ingannano. Stando al quale, se vogliamo gettare lo sguardo nelle stanze delle nostre storie personali e collettive, dobbiamo essere disposti ad accettare fino in fondo quello che troveremo all’interno dei loro angoli più bui, ancor prima di aver appoggiato la mano sulla maniglia.
Dicono che il tempo risani ogni ferita, ma non è vero. Spesso non fa che intensificarne il dolore.
Degna di menzione la scelta dei nomi dei personaggi, alcuni sapidamente retrò, altri che ben si attagliano alle coordinate valoriali e alle matrici comportamentali dei personaggi: in primis quello dell’ermetico e sospettoso cameriere Fosco.
Sul versante del tono narrativo rileva per ampi tratti un carattere dimesso, involuto, che se da una parte contribuisce a intensificare l’effetto generale di sospensione utile a puntellare il pathos narrativo, dall’altra corre forse il rischio di appesantire eccessivamente il periodare, negandogli un respiro del quale, a parere di chi scrive, la stessa narrazione avrebbe beneficiato in termini immersivi.
Le descrizioni degli ambienti e degli oggetti costituiscono un punto di sicuro pregio, distinguendosi quanto a credibilità e puntiglio per i dettagli e fungendo più volte da portainnesto per l’ambientazione delle scene dove gli ambienti si susseguono con piani sequenza asfissianti nei quali la narrazione diviene incalzante ed il coinvolgimento del lettore raggiunge lo spasimo.
Avevo nascosto i guanti inzuppati di sangue nella tasca del soprabito. Ma anche dopo averli sfilati, continuavo a vederlo. Lo sentivo vischioso tra le dita, e caldo. Non è mai andato via. La colpa è così. Non riesci mai a levartela di dosso.