Autore: Erri De Luca
Pubblicato da Feltrinelli - Settembre 2018
Pagine: 112 - Genere: Narrativa Italiana
Formato disponibile: Brossura, eBook
Collana: Universale economica
ISBN: 9788807891205
ASIN: B07CVL1GNR
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“Tra due esseri umani è infinito il grado di premure che possono offrirsi incontrandosi al pianoterra di un marciapiede.”
Una “sbirciata non panoramica sul mondo” intessuta di parole semplici, coraggiose, incalzanti, che tengono in pugno il lettore e rispetto alle quali schierarsi è ineludibile.
Pagine dense capaci di sorprendere quelle di Erri De Luca, da leggere e rileggere per scorgervi il filo conduttore della volontà pervicace di rimanere ancorati al “pianoterra” dell’umanità, sul selciato della veracità fondativa del nostro essere donne e uomini perennemente in cerca di senso fuori e dentro di noi.
Denudati nostro malgrado di ogni sovrastruttura archetipica, anni luce distanti dal fortino delle spiegazioni di comodo con cui tacitiamo le nostre coscienze.
In un dialogo serrato vis-à-vis con la contemporaneità.
In Pianoterra l’irruente talento partenopeo offre all’occhio del lettore tutto il proprio impegno “di stare con tutte le parti lese”, qualsiasi casacca sia stata loro calata addosso.
Un dialogo in libertà con alcune tra le parole-cifra dei nostri tempi: Pietà, Sopraffazione, Virilità, Amore, Paura, Coraggio. Il tutto nella forma, consueta per Erri de Luca, di un ventaglio debordante di riflessioni a prima vista in ordine sparso ma che, riga dopo riga, compongono un affresco sorprendentemente particolareggiato e intenzionalmente aperto a nuovi sviluppi, un apriscatole implacabile di fronte al quale i chiavistelli dei giudizi sommari si liquefanno e le casematte dei facili manicheismi, più e meglio che collassare, fioriscono in una consapevolezza contagiosa.
Un cannocchiale attento scrutatore di silenzi assordanti, sbirciare nel quale farà sorgere una sete ardente di “parole a contrappeso” in fondo alla gola di ciascuno di noi; uno sguardo partecipe del buio della notte, di ogni notte, eretto a presidio della poesia acquattata nello scroscio di ciascun vivere, anche quando il frastuono del tiro incrociato delle bombe sembra coprire il battito del cuore, in una “cipria di grafite e carbonio” che obbliga a procedere a tentoni, ricurvi sulle proprie convinzioni stantie.
Pianoterra è un condensato intenzionale di granitica coerenza, tutto proteso a tagliare il diaframma posticcio che separa micro da macro per puntare il dito contro la ridda di storture e reticenze che si agitano al fondo delle nostre scelte quotidiane così come dei sistemi etico – economici al cui interno esse vedono la luce e albergano, financo di farlo loro malgrado se questo dovesse servire.
Senza concessioni: è questo probabilmente il maggior pregio di una danza di parole capace di evocare sul nostro capo una pioggia ristoratrice a lungo attesa.
È interessante rilevare come questo ambizioso intento venga perseguito operando al negativo: non chiamandosi fuori dallo stato di cose per affermare pruriginosamente un novo ordo rispetto a cui riscrivere il nostro stare al mondo, quanto semmai aspirando con forza l’aria densa di conflitti e polvere da sparo, trattenendola nei polmoni fino a farla propria, abitando le periferie del degrado fino a rintracciarvi le estreme propaggini di una passione per la vita mai sopita.
Considerati i tempi nei quali ci dibattiamo, si tratta di un atto d’insubordinazione in piena regola; il fatto che avvenga su carta non fa perdere di vista la posta piena: fare fiorire il deserto della rassegnazione che incrosta il cuore umano, strapparlo all’indolenza agonizzante attraverso una scrittura balsamica, essenziale nella forma, insondabile nella sostanza.
Una scrittura che ingabbiare negli angusti steccati delle categorizzazioni sarebbe assolutamente vano.
Un “atto di residenza” con i pugni ben piantati nelle pieghe della nostra natura, che non prescinde da un doveroso substrato di analisi politica sapientemente disseminato lungo il testo, assumendolo però come mero punto di partenza per investire la questione economica, le sanguinose disparità sociali prodotte e le inevitabili ricadute sulle condizioni di vita degli ultimi, in una indagine che si amplia come i cerchi concentrici sulla superficie di uno stagno, ossigenandone la sottostante massa d’acqua.
Ogni generazione ha avuto una città cui volgere il pensiero, per correre da lei a difenderla. I nostri padri hanno avuto Madrid assediata da Franco, hanno avuto Varsavia distrutta due volte, nella rivolta del ghetto e in quella dell’intera città l’anno seguente. I miei quarant’anni e rotti hanno Mostar, un buon posto per usarli.
Un atto d’accusa ben circostanziato, inappuntabile, capace di scrollarci di dosso la polvere di un tergiversante cerchiobottismo che ci inchioda in una stasi insanabile, nella quale pascola indisturbata l’umana spietatezza di chi antepone la logica del profitto al riconoscimento dell’Altro.
Se “lo spicciolo cavato di tasca è sordido se lo do senza guardare in faccia”, cosa rimane dell’uomo colpevolmente dimentico della propria fragilità al banco degli imputati?
Approfondimento
La penna indomita di Erri de Luca, riottosa a qualsiasi tiepidismo, è capace in questa opera di rimanere comunque in ascolto, di registrare luoghi, fatti, dolori, con precisione chirurgica, di farvi posto al proprio interno nella più archetipica delle gestazioni per poi esondare dall’orizzonte della pagina con travolgente freschezza e potenza.
Con i nostri furgoni di buona volontà siamo pellegrini in mezzo a odi e torti metodici incalcolabili.
Colpisce più di tutto l’irriverente capacità dell’autore di immergersi nella sozzura di ogni giorno con uno sguardo che rimane limpido e per ciò stesso libero, immerso nella mota eppure irraggiungibile dalla lordura, patentemente estraneo a logiche di compromessi ed artate post-verità, di tirarsi fuori dal ciarlare inconcludente di una folla acefala fin troppo facilmente manipolabile nei propri giudizi, di levare alta la propria voce nei crocicchi anonimi delle nostre città così come a Mostar, teatro di una guerra “alimentata dal combustibile dei delitti, dei torti, delle sproporzioni” rinvenibili un po’ ovunque l’uomo prevarichi sull’uomo, nella polvere disumanizzante dei ghetti di ieri, oggi e domani che intride le nostre candide tuniche.
Nel quale l’autista di convogli d’aiuto si spinge con trasparente onestà ed un’immediatezza che ha dell’ostinato, estraneo ad ogni intento catechizzante, non tanto per riparare i torti quanto per denunciarli, snocciolando con maestria un lessico crudo, puntiglioso, dal cipiglio denotativo sfrontato che nulla lascia tra i denti, in un equilibrio precario tra le prerogative dell’innamorato, del cronista e dell’anatomopatologo.
Voce incessantemente in viaggio, orgogliosamente sprovvista di sandali o bisaccia, sulle tracce delle piccole e grandi meschinerie di cui tutti, nessuno escluso, siamo capaci, così come dello slancio altruistico, taciuto magari per modestia o perché condannato a rimanere privo di cantore.
Con la schiena dritta e l’apertura allo stupore distintive di uno tra gli esponenti più apprezzati del panorama letterario contemporaneo, l’”operaio sgualcito” capace di regalarci parole indelebili e segrete, tenute al sicuro nel cuore di ciascuno di noi.
Appartengo a questo secolo, sono figlio suo e di mia madre, non posso rinunciare all’eredità.