Autore: Henry Miller
Pubblicato da Feltrinelli - 2013
Genere: Autobiografico
Formato disponibile: Brossura
Collana: Universale economica
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Libro autobiografico in cui il protagonista, scrittore americano, fugge dalla sua patria per ambientare a Parigi una vita fatta di mera esistenza, senza ideali e costruzioni intellettuali; vaga allo sbaraglio tra periferie degradate, bordelli, vicoli fatiscenti, alberghi in rovina, insieme ad una fitta schiera di diseredati come lui. Non troveremo solo la Parigi dalle belle architetture e dai lunghi viali, ma anche il degrado che si fa vita vera, pulsione oscena, perché l’uomo è così: pura materia che si imbratta.
Il racconto di Tropico del cancro è in prima persona e non ha una struttura, ma è un lungo inquietante e geniale flusso di coscienza, meglio di in-coscienza, in cui con stile irrazionale e analogico Henry si racconta, anzi, vive alla giornata, travolto dagli eventi che si susseguono senza lena trascinando tutto: il protagonista, gli amici, le donne, le fighe, le vere protagoniste del romanzo, accanto a Parigi, quelle che come enormi voragini ingoiano tutto. Tropico del cancro uscito a Parigi per la prima volta nel 1934, verrà pubblicato in America dopo trenta lunghi anni di polemica, che provocò un processo per oscenità in seguito al quale il Paese rivide le leggi sulla pornografia. Tradotto in Italia da Feltrinelli nel 1962, è ancora al centro di polemiche tra detrattori che non riconoscono all’opera la dignità dell’arte e sostenitori che vedono in Miller un genio della letteratura proprio per quel deragliamento sconvolgente dei sensi da cui è travolto Henry e company e il lettore che sia pronto a entrare in un’altra dimensione, forse quella vera, non orpellata, non mistificata, non mascherata, ma vissuta con tutto l’empito e la spontaneità che ne fanno un’opera anche insensata e perciò geniale.
Tropico del cancro si apre con Henry che vive a Villa Borghese dall’amico Boris, ma non è un alloggio definitivo; ha una serie di conoscenti che lo ospitano ogni tanto; tutto è provvisorio, come il lavoro e le tante relazioni sessuali; è povero in canna, non ha nulla di stabile con nessuno in fondo, e questo stato di provvisorietà lo fa sentire libero. Vive un’esperienza alla Mattia Pascal, potremmo dire, ma senza avvertire il disagio di non possedere la maschera: quella l’ha buttata giù da tempo. Lavoricchia: correttore di bozze, dà lezioni di inglese, posa nudo come extrema ratio, insegnante a Digione. Tante le donne con relazioni a sfondo meramente sessuale: incontri occasionali di una notte o più lunghe; ma tant’è: viva il sesso e l’osso duro del pene col quale impalmare con tutta la voglia che c’è. Qualche donna lascia un segno: Tania che è molto presente nell’opera, la moglie Mona e Germanie, una prostituta di un pomeriggio. Quindi non è il tempo che determina l’incisività di una relazione, ma l’intensità del rapporto sessuale, perché il tempo è il vero cancro, la vera malattia è la vita perché mortale. Non c’è tempo lineare, ma solo interiore: a Tania canta in questo mondo in cui tutto si dissolve, lasciando qua e là chiazze di tempo. All’origine fu non eros, ma caos e Tania è il suo caos e il caos è la partitura su cui è scritta la realtà. Tania è l’incarnazione di tale valore per Henry, ma in generale si circonda di gente sgangherata, di poetastri, scrittoruncoli, come Sylvester; ci sono anche persone di talento ma su tutto trionfa l’ignavia, il nichilismo radicato dentro i corpi, perché forse le anime nemmeno ci sono. Tutti personaggi perdenti e al limite del sociale. Sociale? Che brutta parola-direbbe Miller- che aborre la convenzione, mentre il sesso trionfa pregno di seme: “ Oh Tania, dove sono ora la tua figa calda, le tue grosse giarrettiere pesanti, le tue cosce morbide, piene? C’è l’osso, nei miei venti centimetri di cazzo. Ti stiro tutte le grinze della fica, Tania, gonfia di seme”. La realtà ci trascina via col tempo che tutto involve; tanto vale vivere con crudezza, impudicizia, ricorrendo anche alla scurrilità, con un linguaggio nuovo, innovativo, delirante, evocativo in un procedere istintivo come un fiume in piena. Tanto quello che sta scrivendo non è un libro. “E’ libello, calunnia, diffamazione…insulto prolungato, uno scaracchio in faccia all’Arte, un calcio alla Divinità, all’Uomo, al Destino, al Tempo, all’Amore, alla Bellezza…a quel che vi pare”. Forse nel cantare, stonerà un po’, ma qui non c’è spazio per il Bello, perché danzerà sulla sporca carogna dell’uomo.
E poi c’è Parigi, la vera protagonista del romanzo, colta, vissuta, intuita a 360 gradi: quartieri poveri, ricchi, degradati, fatiscenti, lussuosi, cafè, brasserie, parchi verdi, lunghi viali, strade affollate, buie, spente, desolate. Con tratti anche di totale perdizione:
“Cielo d’indaco sgombro di filacciose nubi, scarni alberi a distesa infinita, sbracciando rami secchi come sonnambuli. Alberi tetri, spettrali, con tronchi pallidi come cenere di sigaro…Imposte chiuse, botteghe serrate. Un lume rosso, qua e là, segnale d’appuntamenti. Ma… passando dall’Orangerie, mi viene in mente un’altra Parigi, La Parigi di Maughan, di Gauguin, …di George Moore…Per il momento non so pensare a nulla: tranne che sono una creatura senziente, trafitta dal miracolo di queste acque che riflettono un mondo dimenticato”.
Poi a Pasqua cammina per Lès Champs –Elysée con occhio così vivo e presente che ci sembra di essere lì: “
Oggi è di nuovo bello e su Lès Champs-Elysée al crepuscolo è come un serraglio all’aperto zeppo di uri dagli occhi neri. Gli alberi han la chioma piena, di un verde così puro, così ricco, che paiono ancora umidi scintillanti di rugiada. Da Palace du Louvre all’Etoile è come un pezzo di musica di pianoforte…”.
Tropico del cancro é un libro vero, uno scavo nell’animo umano che grida o parla piano, ma destruttura le certezze borghesi per parlare della vita, bella certo, ma anche spesso falsa e meretrice.