
Autore: Roberto Sciahinian
Pubblicato da Idrovolante Edizioni - novembre 2022
Pagine: 517 - Genere: Romanzo storico
Formato disponibile: Brossura
ISBN: 9791281143029

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"Era una cosa così eclatante che correva sulla bocca di tutti, suscitando stupore e ammirazione, almeno da parte degli europei. Che un manipolo di montanari male armati riuscisse a tenere in scacco per mesi un intero esercito dotato di armi moderne e di cannoni era qualcosa di epico, che meritava di trovare spazio negli annali di storia. Adesso però la situazione stava precipitando e le sorti di quella gente erano in serio pericolo".

Una piccola ma densa porzione di Storia testimonia cicatrici di un passato che resiste nella memoria. Chiama in causa principi fondamentali, mette sul tavolo valori che sono le radici della nostra umanità eppure spesso posti all’angolo per ragioni di potere, denaro, religione. Questa storia è stata fedelmente ricostruita e parzialmente romanzata per esigenze narrative in “Le aquile di Zeythun” opera che con decisione pone alla ribalta le nefandezze riguardanti la “questione armena”. Essa si colloca nel riassetto degli equilibri di potere in seguito alla guerra Russo-Turca (1877-1878) e al Trattato di Berlino del 1878. Citerò di seguito l’Articolo 61 del Trattato per comprendere meglio le posizioni e le aspettative del popolo armeno, e delle Grandi Potenze, rispetto a quelle dell’Impero Ottomano governato da Abdul Hamid. L’Articolo 61″ stabiliva:
«La Sublime Porta (L’Impero Ottomano) si impegna a realizzare senza ulteriori indugi i miglioramenti e le riforme richiesti dai bisogni locali nelle provincie abitate dagli Armeni e a garantire la loro sicurezza contro i Circassi e i Curdi. Essa darà conto periodicamente delle misure prese a questo scopo alle potenze, che ne sorveglieranno l’applicazione.»
Questo è un antefatto storico chiave che permette di calarci nel contesto, nel momentum che travolge la pacifica normalità armena e nello spirito dei personaggi. L’impegno preso con l’Articolo 61 si è rivelato una promessa di cartapesta. Nonostante le rivendicazioni e le relative speranze degli armeni appaiano ragionevoli saranno represse da un atteggiamento ostile del sultano che, per contro, stringe le maglie del potere attorno alla comunità armena tramite l’utilizzo sistematico di soprusi, divieti e tasse onerose e ingiustificate come l’hafir, tributo per una protezione militare inesistente e non richiesta.
Tutto quello che volevano era essere trattati come i sudditi musulmani: pagare le medesime tasse, pregare il proprio Dio, avere la possibilità di testimoniare e far valere i propri diritti in tribunale, portare armi per autodifesa e non temere per la propria vita se ci si opponeva a un sopruso. (Pag. 38)
Col tempo diventa sempre più evidente, anche agli occhi dei Paesi del Trattato, il fatto che il sultano cerchi un pretesto per far sfociare il malcontento popolare conseguente alle mancate riforme in tensioni da reprimere militarmente, in maniera apparentemente legittima. È un gioco sporco ma le mani del governo non vogliono macchiarsi direttamente. A questo proposito vengono costruite quelle che oggi chiamiamo fake news, false prove a sostegno della tesi che gli armeni stiano cospirando.
Gli ordini non lasciavano dubbi: si doveva incitare la popolazione musulmana alla Jihad, facendone ricadere la colpa sulla provocazione da parte degli armeni, che per primi avrebbero aggredito il popolo dei credenti scatenando la sua sete di vendetta. (Pag.189)
Un conflitto che viene dunque sospinto come guerra di religione esacerbata dalle differenze sociali. Ricordiamo che gli armeni in media erano istruiti, ricchi oltre che cristiani. Un netto contrasto con la maggioranza dei turchi che cova un odio latente contro quello che è di fatto un popolo estremamente pacifico.
La caccia all’armeno inizia con la dura repressione dei soldati imperiali in un corteo di manifestanti armeni. Inutilmente le botteghe dei cristiani furono sollecitamente sprangate. Al grido di Allahu Akbar, la folla inferocita, con asce e leve, sfondò le porte come fossero di carta e si riversò all’interno, depredando le merci e sgozzando, sventrando, violentando senza esitazione né pietà. (Pag.148)
A questo punto il romanzo entra dentro Zeythun, città della provincia di Marash in Cilicia. Ribelle, fiera. Lo è stata nel 1862 quando ha avuto l’ardire di sollevarsi e sconfiggere l’esercito turco e lo è in questo clima di tensione che preannuncia la fine della pace. La sua mobilitazione generale, il suo coraggio e ingegno sono noti a tutti, persino il sultano Abdul Hamid, personaggio dall’indole insicura ma irascibile e superba ne è intimorito.
Una città arroccata sulle montagne che protegge l’identità, gli ideali e le conquiste del popolo armeno. La sua conquista significherebbe cancellare dalla memoria un luogo simbolo della resistenza armena e spegnere un faro acceso nelle tenebre dei tempi. Per questa ragione il “Sultano rosso” invia un esercito irregolare composto da 38 mila soldati curdi, circassi e lazi che attaccano barbaramente i villaggi del Sasun, depredando, violentando e massacrando donne e bambini e si unisce al V Corpo d’Armata composto da 20 mila uomini che assedia Zeythun.
Tutti sapevano cosa li aspettava: gli stenti, la fame, il dolore, la morte. Ma niente sarebbe stato peggio del disonore. Arrendersi ai tiranni senza lottare? Mai! (Pag.97)
Roberto Sciahinian descrive i preparativi della città per una battaglia che appare inevitabile e soprattutto impari. Tra le righe spicca il coraggio dei fedayi, 1500 guerrieri pronti a tutto e del “giustiziere” Djellad, eroe della Cilicia e leggenda consacrata in battaglia. Egli è considerato come una sorta di Robin Hood armeno che con il suo seguito si sposta nel territorio per difendere la popolazione perseguitata dai turchi. Emerge la saggezza e la prontezza dei capi rione, dei baroni appartenenti al partito socialdemocratico Hnchak e della catena diplomatica guidata da uomini fermi e lucidi come Aghassi. Tra battaglie e sfide tattiche il romanzo propone anche vicende familiari che in tempo di pace sono considerate normali e che inserite nel contesto di un futuro incerto, con morte e distruzione alle porte rivestono un carattere di solennità. Vicende che mostrano come nella difficoltà l’uomo possa attingere a forze, virtù e persino a sentimenti di grande rilevanza. Interessanti le dinamiche che coinvolgono altri temi secondari come l’amore romantico, l’effetto della guerra sulla maturazione degli individui che manifestano sia pregi che difetti in maniera amplificata. E ancora si affronta il tema della strada senza uscita del tradimento, la naturale paura del dolore e quella di non essere all’altezza in situazioni estreme.
Una minoranza, abbandonata al suo destino, si gioca tutto ciò che ha, persino la vita dei propri figli. Per l’attaccamento alla propria terra, per orgoglio delle proprie origini. Dove non arriva la sua potenza militare arriva la determinazione, l’istinto di sopravvivenza, l’unità di intenti.
Moriremo comunque. Meglio farlo combattendo e portandosi dietro quante più possibile di quelle belve. Come diceva Dostoevskij: “il segreto dell’esistenza non sta soltanto nel vivere ma anche nel sapere per cosa si vive…. (Pag. 230)
Un racconto appassionante, vivo, che apre gli occhi sulla storia e la cultura armena. Addolcito e reso scorrevole da un buon numero di personaggi a rappresentare le parti in modo preciso e realistico. I dialoghi, in particolar modo quelli degli uomini della resistenza armena, sono a tratti toccanti quando provano a portare vita e normalità dove ha luogo distruzione e smarrimento. Sciahinian “protegge” questa storia, se ne prenda cura e lo si capisce rispettivamente dalle attenzioni e dalle distanze che riserva ai sentimenti mentre la dispiega. La scrittura è impeccabile, eccelle sia per scorrevolezza sia per conduzione della trama, sfida non semplice nella gestione dei numerosi fatti storici. Il lettore è condotto in un percorso di oltre cinquecento pagine con linearità e naturalezza, in qualche sporadico caso forse anche con abbondante prevedibilità.
“Le aquile di Zeythun” è uno dei migliori libri letti quest’anno, amo i romanzi storici e dunque consideratemi di parte, tuttavia mi ritengo anche un lettore piuttosto esigente. Dal mio punto di vista questo libro non presenta incertezze o punti deboli. È un romanzo maturo, sa rispettare i tempi, descrive e definisce in maniera tale da permettere al lettore la creazione di immagini nitide ben collegate tra loro in una trama ricca di tensione narrativa. Il risultato è che la lettura non è mai un peso ma una scoperta costante. Questi aspetti fanno la differenza tra una lettura di qualità e un libro che magari può essere letto in un secondo momento.
Oltre a farci conoscere quella piccola e densa porzione di Storia, così come la definivo in apertura, il romanzo dovrebbe farci riflettere in merito a quella porzione più grande e forse anche a quella attuale, considerando che essa si ripete in forme simili, con l’obiettivo di consolidare la propria consapevolezza sui meccanismi dei conflitti umani e sulla necessità del rispetto dell’indipendenza dei popoli in un modo sempre più frammentato. Perché di tolleranza e coraggio insieme dobbiamo vivere.
Fabio Pinna