Autore: Angelo Martinelli
Pubblicato da BastogiLibri - Settembre 2016
Pagine: 113 - Genere: Racconti, Autobiografico
Formato disponibile: Brossura
Collana: Percorsi narrativi
ISBN: 9788899376734
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Le attenuanti generiche – come un caffè o il titolo di presidente – non si negano a nessuno.
(Mi chiamavano Signor Giudice, Capitolo XII)
In un’aula di tribunale deve essere tutto giusto, dal fattore di apertura del tendaggio delle finestre alle decisioni del giudice. Se per gli arredi, come ad esempio le tende, è semplice ottenere e mantenere un standard grazie alla produzione industriale in serie per i giudici il discorso è diverso: sono nati tutti diversi, non ci sono standard. Fatto innegabile è, che in tutta la meticolosa precisione e documentazione fornita e a sua volta richiesta dalla legge, sono proprio i giudici a dover disporre -applicando la legge- con un’ultima parola, di beni, società legali e persone. Non la legge stessa. La diversità in fase di giudizio diventa sia un elemento prezioso che un ostacolo evidente alla coerenza, alla coesione, generando spesso intoppi, fraintendimenti ed errori giudiziari. Emblematica a questo proposito la descrizione del giudice T. che troviamo in uno dei racconti di Mi chiamavano Signor Giudice il quale “pensava che quello che non lo convinceva fosse sbagliato”.
Leggendo ho abbozzato un sorriso ma evidentemente spero che non siate mai stati imputati in uno dei processi del giudice T.
La giustizia è giusta: lo sappiamo tutti altrimenti si chiamerebbe ingiustizia (banale no?). Ma per chi? Sempre? La diversità, dei casi e delle persone, anche in questo caso, rappresenta un ostacolo alla coerenza, all’efficacia della giustizia stessa. Frammentazione, equilibri fragilissimi, ovvero infinite possibilità. Un po’ spaventa.
In Mi chiamavano Signor Giudice di Angelo Martinelli il fil rouge è proprio questa diversità, e il senso di impotenza che ne consegue, capaci di intaccare i luoghi comuni dell’ambiente giuridico e dei suoi meccanismi più interni. Il libro è una raccolta di racconti autobiografici e altri di puro ingegno, corredati da riferimenti esterni (estratti di giornali, di saggi e citazioni) che ne facilitano la comprensione al lettore neofita. In questi racconti si muovono decine di personaggi, quelli reali non sono meno divertenti di quelli immaginari, grazie all’abilità del narratore. Penso di poter affermare a ragione che il collante tra queste storie molto diverse tra loro, nel tempo storico e nelle ambientazioni, sia l’affinità “morale” dal punto di vista logico e la verve narrativa (già presente nelle altre opere di Martinelli) da un punto di vista più tecnico. Durante la lettura incontrerete San Tommaso, il Principe di Culogna, giudici, avvocati, cancellieri, persino il presidente (quello vero) della Corte Costituzionale.
La maggior parte di essi, proprio come il “Signor Giudice” in questione, si troverà impegnato sullo sdrucciolevole terreno delle plausibilità: uno spazio infido tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato e che all’occorrenza può diventare sia l’uno che l’altro. Martinelli fa muovere i suoi personaggi tra apparenti paradossi e apparenti logiche ineccepibili senza però sminuire il valore dei princìpi, delle tesi, dei punti di vista. Certo riconosce che questi vengano utilizzati nell’ambito giuridico affinché se ne tragga vantaggio, in ogni singolo caso e fino alla fine di un processo, e nonostante ciò li valorizza. Torniamo quindi alla visione della diversità come valore di arricchimento personale poiché parte delle esperienze e della comunità, integrando a volte del buonsenso al codice giuridico stesso.
Piuttosto candidamente Martinelli ammette che i giudici rappresentano l’anello debole del sistema giuridico come, invero, rappresentano anche l’anello indispensabile. Per spiegarlo con un paragone: proprio com’è indispensabile un dizionario per conoscere e definire un vocabolo allo stesso modo è necessario un intervento umano per stabilire quale sfumatura o sinonimo di quel vocabolo sia più appropriato usare, dato il contesto e le finalità. Le cose si completano tuttavia il risultato non è mai garantito.
Vi sorprenderà scoprire tra le righe di questo libro infatti come il sistema giuridico non sia esatto, prevedibile, giusto, come si potrebbe immaginare ma come piuttosto sfugga a delle logiche programmatiche dipendendo da fattori soggettivi. Teorie più plausibili di altre, punti di vista più verosimili, apparenze. Una posizione di potere quella del magistrato ma anche una sedia scomoda da cui sbagliare. L’impressione è che l’autore racconti di figure mitologiche più che di giudici in carne e ossa, sia per l’ilarità scaturita dalle situazioni narrate sia per l’immane compito (impossibile?) del giudice stesso: fare sempre la cosa giusta come un Dio. Le formalità, le riverenze, la ricerca della verità, decidere il meno peggio, salvare i contendenti dalle cause stesse, usare un metro di valutazione e poi cambiarlo, nel dubbio condannare o nel dubbio assolvere o nel dubbio applicare le attenuanti generiche, andare oltre le evidenze messe agli atti. Tutto questo e molto altro è Mi chiamavano Signor Giudice. Un racconto esplosivo, umano, disincantato, sincero della giustizia che non esiste. Almeno nel nostro immaginario. Con tutte le attenuanti generiche del caso.
Il libro in un video (di pochi minuti)
#LibroInDiretta (Puntata 2) “Mi chiamavano signor giudice” di …
#LibroInDiretta (Puntata 2) “Mi chiamavano signor giudice” di Angelo Martinelli
Pubblicato da Leggere a Colori su Mercoledì 19 ottobre 2016