In questa puntata del nostro corso di scrittura creativa affronteremo il tema dei dialoghi all’interno di un’opera di narrativa. I dialoghi sono spesso sottovalutati (e non solo dai principianti) poiché si ha l’impressione che essi siano un modo naturale per raccontare la trama e caratterizzare i personaggi. Il problema è che, per raggiungere l’obiettivo di rendere un dialogo “naturale”, è necessario porre attenzione a tutta una serie di dettagli che fanno la differenza fra un dialogo efficace ed uno inutile e noioso. Innanzitutto quando usare il dialogo e quando invece è preferibile un discorso indiretto? Annosa questione! Immaginate di dover rappresentare la vostra idea di romanzo non in un libro, bensì sul palcoscenico di un teatro. Non disponete di effetti speciali e la scenografia consiste in un telo dipinto che non potete cambiare se non nell’intervallo fra un atto e l’altro. In che modo potete illustrare al pubblico l’ambientazione? Il carattere dei personaggi? La trama stessa? Gli antefatti ed i risvolti su ciò che non è possibile rappresentare fisicamente in scena? Far avanzare la storia senza poter contare su una voce narrante? Tutti questi elementi, ed altri ancora, nel teatro vengono affidati al dialogo ed alla mimica dell’attore. Il discorso indiretto non è qui praticabile.
La lettura di opere teatrali ci aiuta a comprendere meglio quale possa essere il ruolo dei dialoghi nel nostro romanzo. Come esempio, esaminiamo il seguente dialogo preso dal Macbeth di Shakespeare (Atto I, Scena II):
RE DUNCAN DI SCOZIA – Chi è quest’uomo così insanguinato?
A giudicar da come si presenta,
ci può informar sugli ultimi sviluppi
della rivolta.
MALCOLM – Questi è l’ufficiale
che da bravo soldato s’è battuto
per evitare che mi catturassero.
Salve, mio prode amico!
Di’ al re quello che sai della battaglia,
come tu l’hai lasciata.
UFFICIALE -Incerte erano ancora le sue sorti,
come due nuotatori che, sfiniti,
cercano d’avvinghiarsi l’uno all’altro,
affogando la loro abilità.
Lo spietato Macdonwald
(che sembra fatto per esser ribelle
perché son tante le scelleratezze
che natura gli fa sciamare addosso)
aveva ricevuto dei rinforzi
di kerni e galloglassi provenienti
dall’isole a occidente,
e talmente arrideva la Fortuna
alla dannata sua contestazione,
che sembrava la ganza d’un ribelle.
Ma non gli è valso nulla; ché Macbeth,
il prode – e di tal titolo è ben degno –
a spregio della sorte, spada in pugno,
di cruenti massacri ancor fumante,
quasi fosse il pupillo della Gloria,
s’apre un varco nel mezzo della mischia
fino a trovarsi quel ribaldo a fronte;
né gli porse saluto né congedo
finché non l’ebbe tutto dilaccato
dall’ombelico in giù fino alle chiappe,
infiggendone poi la testa mozza
sui nostri spalti, alla vista di tutti.
RE DUNCAN DI SCOZIA -Prode cugino! Degno cavaliere!
La prima battuta del Re è una domanda diretta. Nel chiedere chi sia l’uomo insanguinato che gli portano innanzi, egli ci DESCRIVE istantaneamente il setup della storia catapultandoci nel bel mezzo dell’azione scenica con un senso della realtà impareggiabile. L’uomo è insanguinato ed è appena uscito da una battaglia di cui il re evidentemente ignora l’esito, poiché spera che sia proprio quest’uomo (un soldato? un superstite?) a rivelargli qualcosa.
La battuta successiva di Malcolm definisce ancora meglio il personaggio in questione: si tratta di un ufficiale e per di più valoroso (definito prode). La sua testimonianza quindi sarà particolarmente affidabile e veritiera. Possiamo fidarci di ciò che sta per dire e pendiamo dalle sue labbra poiché desideriamo fortemente conoscere in che contesto ci troviamo. E infatti non rimaniamo delusi. L’ufficiale parla e ci introduce non solo nella battaglia ma anche nella vexata quaestio di quale sia la natura di quest’opera, il suo tema: viene introdotto Macdonwald che ha tutte le fattezze dell’antagonista. La serie di epiteti usati per descriverlo non lascia spazio a fraintendimenti: spietato, ribelle, scelleratezze, sciamare ecc. Si noti anche la selezione delle parole: il verbo sciamare, ad esempio, che dà l’impressione che le ingiustizie da lui commesse siano una moltitudine ributtante di insetti che gli ronza attorno. Dopo aver reso Macdonwald tanto temibile, l’autore usa questo personaggio per introdurre il valore del protagonista e cioè Macbeth. Qui gli epiteti si ribaltano (prode, pupillo della Gloria…) e, per rendere l’azione più realistica, il tempo verbale passa repentinamente dall’imperfetto al presente indicativo. Il ritmo qui è quello di una radiocronaca: spada in pugno, s’apre un varco… fino al cruento finale di scena. Il tutto in un’unica battuta!
La risposta finale di re Duncan, oltre ad esprimere la soddisfazione del sovrano per le azioni valorose di Macbeth, serve anche a farci sapere che i due sono cugini. Cosa è poi accaduto durante il dialogo? La storia è andata avanti! Il dialogo non è uno stop per l’azione, anzi! Rappresenta un veicolo tramite il quale il lettore va avanti nella storia, ne entra nei meandri e ne viene catturato. Questo dialogo ci insegna diverse cose. Il dialogo mostra la scena, senza dire. Evoca le immagini di ciò che non è possibile rappresentare, lambisce il passato rendendo vividi quei dettagli che altrimenti sfuggirebbero allo spettatore. Parimenti, il dialogo è essenziale, cioè esprime tutti e soli gli elementi utili alla storia, tacendo del tutto dettagli ininfluenti che potrebbero distrarre l’attenzione degli spettatori. In tutto il teatro di Shakespeare non troverete nessun elemento in più. Se qualcosa viene descritto: un sorriso, un paesaggio, il volo di un uccello e così via, ciò accade solo in quanto è finalizzato alla trama. Nel nostro lavoro di narratori questi elementi sono strumenti preziosissimi per catapultare un lettore al centro della storia. In che modo è però possibile ottenere questo effetto?
Come possiamo costruire materialmente un buon dialogo?
- La scelta delle parole è il primo passo.Le parole vanno scelte sulla base dell’ambientazione scelta, del genere e del personaggio che le pronuncia. Un re che parla come un popolano o viceversa non aiutano il lettore, tuttalpiù lo muovono al riso (il che è particolarmente frustrante laddove non è questo l’effetto che ricercavamo) o lo confondono, il che è ancora peggio. Le parole inoltre vanno selezionate ed ordinate in modo opportuno, tenendo conto anche e soprattutto del loro valore semantico e della relazione che ciascuna parola ha con altre parole. Un esempio efficace è proprio quello, nel dialogo appena citato, della parola “sciamare” e delle sue connotazioni contestuali (l’efferatezza del ribelle e la crudeltà dei suoi crimini raccapriccianti), sintattiche e perfino fonetiche (in italiano il suono fonetico [ʃʃ] come appunto in sciamare, sciare, strisciare ecc, rimanda ad un’idea di un qualcosa che striscia, qualcosa di viscido e, per estensione, di malvagio. Mentre il suono della c doppia, come nelle parole crucco, baccucco, ecc. risultano ridicoli e sono spesso usati nella commedia… E così via). L’ordinamento è anche molto importante: tutte le parole usate devono essere ordinate in modo da andare dal generale al particolare in modo da non svelare un dettaglio prima del tempo. Le parole che esprimono concetti più precisi, quando sono accostate a parole più generiche, le devono sempre seguire altrimenti le rendono inutili quando non addirittura grottesche. Si pensi alle parole “bianco” e “chiaro”: la prima è meno generica della seconda poiché qualcosa che è bianco è senz’altro chiaro. Però il termine “chiaro” rimanda anche ad altri significati (la chiara dell’uovo, una spiegazione chiara ecc.) che possano farlo preferire al primo, oppure rendono utile un suo accostamento per rendere più efficace una figura retorica in cui sono proprio i significati secondari che si impongono nella scelta. È l’effetto finale che conta!
- In secondo luogo c’è la scelta del tempo verbale e la gestione dello scorrere del tempo. Per questi elementi valgono i consigli dati in un articolo recedente: il tempo si velocizza quando non accade nulla e si rallenta quando ci sono molte azioni. Il difficile qui è gestire la coerenza sia sintattica che semantica del discorso.
- Poi c’è la struttura. Ogni dialogo per risultare efficace deve contenere un conflitto. Che cosa si intende per conflitto? Un conflitto si ha quando un personaggio desidera qualcosa (che può essere materiale o immateriale, come ad esempio le notizie sull’esito di una battaglia) ma esiste un elemento di disturbo che si oppone fra lui e il raggiungimento del proprio obiettivo. Il disturbo può essere costituito da un altro personaggio, da un suo pensiero, da un evento naturale o da un accidente qualsiasi. Presentato il conflitto (ad es. “chi è quest’uomo insanguinato?… Ci può informare sugli ultimi esiti della rivolta” ci dice che il Re vuole sapere queste cose che, per qualche motivo, non conosce), si fa crescere la tensione senza mai svelare l’oggetto del conflitto prima del tempo poiché ciò renderebbe immediatamente inutile il prosieguo del dialogo. Nell’esempio preso dal “Macbeth”, l’effetto si ottiene in due passi: prima presentando il testimone come un valoroso e poi, dalle parole di quest’ultimo, mostrando il pericolo costituito dal ribelle, esaltando le nefandezze di quest’ultimo per poi alla fine sciogliere il nodo e rilasciare la tensione: il malvagio è stato ucciso dal prode Macbeth. La battaglia volge al meglio. Dosare la tensione e fare in modo che questa persista per un tempo che non sia né troppo lungo né troppo breve, fa parte dei trucchi del mestiere. Può aiutarci il leggere numerosi classici che, specialmente nel mondo teatrale, possono insegnarci utili stratagemmi. E poi bisogna scrivere e sbagliare, cioè fare pratica.
- Intervallare il discorso diretto con descrizioni. L’esempio preso dal teatro ci fornisce una vista parziale (sebbene efficace) sul problema del discorso diretto. In teatro infatti gran parte della comunicazione avviene su canali non verbali (postura, mimica, effetti sonori ecc.) che non sono disponibili in un’opera di narrativa. L’autore quindi deve all’occorrenza inserire questi elementi in forma narrata con opportune descrizioni che fungono da intermezzo fra il dialogo e l’azione non verbale. Queste descrizioni sono spesso abusate dai neofiti i quali vi inseriscono spesso considerazioni e dettagli che esulano dallo scopo del dialogo. Bisogna sempre ricordare che è il conflitto e la tensione che ne discende a comandare e tutti gli altri dettagli devono essere inseriti in modo da non interferire con essi. Le descrizioni devono essere appropriate e concise ma soprattutto il controllo del tempo è qui ancora più importante: descrivere una smorfia facciale o un gesto furtivo solo se veramente funzionali alla tensione narrativa, dilungarsi su un’azione non verbale solo quando la complessità del gesto lo richiede, evitare digressioni inutili e linguaggio ampolloso che distrarrebbero il lettore. Ma soprattutto evitare la simultaneità. La lettura è un’attività sequenziale e pertanto non va d’accordo con gli eventi simultanei. Mentre a teatro è possibile agire e parlare contemporaneamente (lo spettatore ha a disposizione tutti i suoi sensi per percepire tale simultaneità), nella narrativa ciò non è possibile. Il lettore legge in maniera sequenziale, anche se noi autori ci prodichiamo ad usare avverbi di tempo, egli capterà prima un’azione e poi l’altra. Pertanto la simultaneità va introdotta solo quando è indispensabile (e molti critici sono concordi nell’affermare che non lo sia mai, o comunque molto raramente) e va gestita con molta attenzione. Un errore molto comune fra i principianti è infatti quello di immaginare una scena e cercare di descriverla partendo proprio dalle simultaneità fra linguaggio verbale e non verbale. È necessario sempre progettare i dialoghi in modo da rendere questi elementi il più possibile sequenziali e soprattutto subordinandoli alla tensione narrativa che, lo ripeteremo fino allao sfinimento, è l’elemento che guida tutto!
Cosa accade nei casi in cui non riusciamo a costruire un dialogo efficace?
Il primo passo è proprio quello di domandarci se effettivamente abbiamo bisogno di un dialogo in quel punto della storia. Se, ad esempio, non c’è conflitto ma abbiamo solo bisogno che un personaggio riveli al lettore una serie di dettagli e particolari funzionali alla storia, oppure desideriamo che un personaggio descriva un altro dialogo cui ha assistito in un passato, o ancora i personaggi si dicono qualcosa che il lettore conosce già, e così via, in tutti questi casi, può essere preferibile l’uso del dialogo indiretto. Questa forma di dialogo è spesso usata anche dagli autori più affermati, però nasconde molteplici insidie. Innanzitutto il discorso indiretto azzera la tensione. Quindi non usarlo mai nel mezzo di un climax o di una scena d’azione è una regola valida nella maggior parte dei casi. In secondo luogo, è necessario fare attenzione ai tempi verbali e narrativi. Spesso il discorso indiretto fa ricorso ai tempi passati e trapassati che sono macchinosi e mai piacevoli da leggere (“affermò che gli era stato detto di non mangiare quel frutto”). Infine, usando il discorso indiretto, è più facile indulgere nell’errore di “dire” anziché “mostrare”. Come già sottolineato in uno dei primi articoli di questo corso, quello di dire anziché mostrare è l’errore più marchiano che un narratore possa commettere poiché allontana il lettore dalla storia e rende impossibile la sospensione dell’incredulità.
Per questa lezione abbiamo terminato.
Come esercizio, si scelgano alcuni classici che sono piaciuti e si provi ad individuare nei dialoghi gli elementi descrittivi, il principio di selezione ed ordinamento delle parole, il linguaggio e la gestione del tempo, la natura e l’esito del conflitto, l’utilizzo e l’utilità delle descrizioni nel dialogo, la progressione della storia. Il primo brano lo scegliamo noi, da “Cime Tempestose” di Emily Bronte. Alla prossima!
Aveva i capelli e i vestiti bianchi di neve, e i denti aguzzi da cannibale, scoperti per il freddo e la rabbia, scintillavano nell’oscurità.
«Isabella, lasciami entrare, o te ne pentirai!» ruggì, come dice Giuseppe.
«Non voglio essere complice di un delitto,» risposi. «Il signor Hindley sta di sentinella con un coltello e una pistola carica.»
«Lasciami entrare dalla porta di cucina» disse.
«Hindley ci arriverà prima di te,» risposi: «e che miserabile amore è il tuo, che non può sopportare un po’di neve! Fin che splendeva la luna d’estate ci hai lasciato in pace, ma alla prima bufera invernale corri a rifugiarti in casa. Heathcliff, se fossi in te, andrei a sdraiarmi sulla tomba e là morirei come un cane fedele. Certo che ora non vale più la pena di vivere nel mondo! Mi avevi instillato l’idea che Caterina era tutta la gioia della tua vita; non capisco come fai a sopravvivere alla sua perdita!»
«È là, vero?» esclamò il mio compagno, precipitandosi verso il vano. «Se posso metter fuori un braccio lo colpisco.»
Temo, Elena, che mi giudicherai assolutamente malvagia; ma non sai tutto, quindi non puoi
giudicarmi. Per nulla al mondo avrei cercato di ucciderlo; ma neppure mi sarei opposta. Non potevo fare a meno di desiderare la sua morte. Perciò fui terribilmente delusa e angosciata dal terrore per le conseguenze del mio linguaggio offensivo quando Heathcliff, lanciatosi sopra l’arma di Earnshaw, gliela strappò di mano. Il colpo esplose, e il coltello scattando gli si conficcò nel polso. Heathcliff lo tirò fuori di viva forza lacerando le carni, e se lo cacciò gocciolante nella tasca. Con una pietra abbattè poi il sostegno tra le due finestre e con un salto fu dentro.