I treni sferragliano in stazione. Mi chiedo cosa diamine portino con loro, quando tornano. E cosa lasciano, quando vanno via. Io i treni non ho mai avuto il coraggio di prenderli, né per mano, né per sogni. Figuriamoci se mi sono azzardata ad amarli. Mi fanno paura, mi fanno una paura assordante. Quei mille sussurri, quelle risate, quei libri aperti e letti tanto per, e quei silenzi incompatibili con i miei stati d’animo. Ho preso il treno solo una volta. Oggi sono qui alla stazione ferroviaria e sto aspettando un treno, uno qualsiasi, uno dei tanti. Mi siedo su una panchina, una qualsiasi, una delle tante color verde abnorme, una delle tante che accetta d’essere l’appoggio di un’anima vagante.
Accanto a me vi è un estraneo, uno dei tanti. Veste un costume che vagamente mi ricorda il grande Gatsby. La camicia è di un bianco candido, forse a causa del nero che la mette in risalto, un po’ troppo. E le mani. Le mani poggiano malinconiche sulla stoffa nera dei pantaloni deliziosamente ripiegati all’orlo, infrangendo quell’uniformità notturna con un tenue colore rosato dal freddo. Ci sono mani che raccontano e mani che ricordano. Le sue riescono a fare entrambe le cose, con violenta innocenza, con quel pallido color roseo che fa da sfondo a delle venature violacee in rilievo, riescono a raccontarti del nulla dandoti tutto. Le sue mani sono campi di rose percorsi, scossi, da rotaie coperte da petali di fiordaliso. Ed il biglietto è timbrato. Sono lì, sulla malinconia viandante, circondata dal profumo di un fiore lontano dai miei pensieri, stretta alla mia valigia di paure e speranze, con i piedi attaccati ad un pavimento che confluisce in direzione centrifuga, lontano dal cuore. Londra, Parigi, Sidney e poi Roma con tutte quelle strade che non la dimenticano mai, Venezia con la sua poesia, Manchester con i suoi diavoli, Pechino, Hong Kong, Lhasa quante città si possono vedere dalla finestra appannata dal respiro di un’anima fredda e silenziosa, quanto calore si può trovare nel silenzio di uno sconosciuto, nell’opera più poetica della natura? Chissà quanto avrà viaggiato questo uomo, chissà se le sue rotaie sanno di fiordaliso o solo di un freddo metallo.
Sono rotaie astratte, sensibili al tempo e alle parole, al calore e agli sguardi. Sono rotaie che si dimenano in deliziose forme, simili a quelle grandi strade che hanno il coraggio di passare il confine di enormi stati (d’animo) e trovano la volontà di riposarsi in curve che ricordano i fiordi norvegesi, silenziosi e irripetibili, i tramonti di solitudine dai grattaceli di Dubai, le onde pacifiche dei mari tropicali. Rotaie alle quali si incastonano mille nomi, storie da raccontare o da custodire. Rotaie che trasportano sogni e delusioni, che trasportano ciò che era e ciò che sarà. Rotaie di un treno che si corruga nei movimenti del suo padrone, che prende direzioni inesistenti portando a luoghi esistenti. Rotaie che si rilassano su campi di rosa selvatica dal profumo fiabesco, mentre sulla finestra di uno dei tanti treni che indirizzano al mondo, riposa un fiordaliso fragile e verace, accarezzato dal freddo di Gennaio. Penso di poter tornare a casa ora, il mio viaggio in treno l’ho fatto e penso proprio che mi basterà per tutta la vita. Odio i treni, li ho sempre odiati, forse perché non ho mai avuto il coraggio di prenderli, ma questa mattina mi sono superata, devo ammetterlo. Quanto avrei voluto stringere quel mondo tempestato di viaggi, ancora una volta un’ultima volta.
Emel