Cari amici, benvenuti a questa nuova puntata di Scrivere+ il nostro corso di scrittura creativa gratuito. Oggi parleremo di struttura e proporzione, ovvero di come possa essere strutturata un’opera di narrativa, secondo quale principio o filo conduttore, in quante parti e in quale rapporto di armonia è bene che stiano fra loro queste parti. Per fare ciò esamineremo brevemente le strutture di narrativa più comuni, a cominciare da quelle classiche, dalle quali tutto trae la sua origine.
Un’altra premessa è d’obbligo. Il compito del narratore è già sufficientemente gravoso anche senza vincoli e paletti, figuriamoci poi quando questi diventano stringenti! Nessuno potrà mai obbligarvi a seguire le regole qui esposte, così come nessuno potrà mai obbligarvi a seguire qualunque regola della scrittura: perfino la grammatica può essere cambiata, e ci sono esempi validissimi di ciò! Ma qui si discute di come poter scrivere una storia che possa piacere ad un pubblico e si tratta di un discorso molto diverso. Si va dalla capacità di affabulare al potere commerciale di un’opera, insomma si tratta non di come scrivere e basta, quanto piuttosto di scrivere un qualcosa che possa avere un pubblico ed un mercato! Se siete di quegli autori che scrivono per se stessi, quelli ai quali non importa di avere lettori e nemmeno, in ultima analisi, di essere compresi, potete tranquillamente evitare di leggere questo articolo e fare altro, ne guadagnerete tempo.
Fra le opere dell’ingegno umano, da sempre, la scrittura ha esercitato sulle masse un effetto dirompente. Nella vastissima casistica delle esperienze umane, nella enorme varietà di vicende e situazioni che in ogni epoca i nostri simili hanno dovuto affrontare nel quotidiano, gli uomini hanno costantemente cercato un significato, un disegno che gettasse luce su tale sequenza di avvenimenti che si succedono con una cadenza apparentemente casuale. Agli albori della società occidentale, gli antichi greci considerarono Caos l’entità primigenia, il vuoto, l’oscurità; ed è singolare come, nella moderna accezione, noi invece, almeno in una terminologia forse inconsapevole, accostiamo il disordine al vuoto, e questo, all’assenza di un significato. Quando un evento improvviso ci investe, indipendentemente dal fatto che sia o meno propizio, viene naturale domandarsi se vi sia un motivo che abbia scatenato questa forza imponderabile. I superstiziosi parleranno di fortuna o sfortuna, i religiosi di Provvidenza e risposta alla preghiera, ma l’interrogativo rimane inevaso. Nel mito prima, nella narrativa poi, epica e poetica, prima ancora che in prosa, gli uomini continuarono a cercare quel significato, la risposta a quella domanda. Gli antichi greci posero le divinità all’origine di tutte le azioni umane: guerre, abbondanza e carestie, amori e odi, assassinii e nascite, tutto era frutto in origine di un disegno divino. Tale disegno rappresentò per essi la causa primaria di tutto, dalla quale poi la natura umana con le proprie scelte, più o meno libere e consapevoli per la presenza del Fato, avrebbe tessuto le trame della storia. Nelle opere di Esiodo, Omero, e di tutti gli autori di tragedie, questo disegno è presente e inequivocabilmente espresso. Sin da quei lontani giorni, le opere dell’ingegno umano hanno rappresentato una risposta alla casualità dell’universo: se nella realtà il legame fra causa prima ed effetto è labile e spesso imponderabile, nell’opera dell’uomo quest’ultima è sempre evidente. A seconda delle epoche storiche e delle relative influenze culturali, è toccato, di volta in volta, alla religione, all’amore, alla superstizione, alla ragione, alla scienza, di rappresentare quel motore primo.
La narrativa, in quanto opera dell’ingegno umano, non fa eccezione: in essa vige l’ordine e una strettissima e chiara corrispondenza fra causa ed effetto, una catena consistente e solida attraverso la quale si snoda l’azione e si sviluppa la trama. In questo disegno l’autore ha il potere di scegliere quale sia la causa, la forza motrice che mette in moto i personaggi. Tuttavia, una volta operata tale scelta, l’azione partirà e si svilupperà, secondo la natura dei protagonisti, dando origine all’intreccio. L’autore non può più decidere autonomamente perché accada o non accada qualcosa in quanto tutti gli eventi raccontati devono seguire scrupolosamente la catena delle relazioni causa-effetto. Questa puntualizzazione serve a fugare ogni dubbio sull’idea che molti autori principianti possiedono del romanzo e del racconto e cioè che queste forme espressive siano composte da una serie, più o meno lunga, di eventi che “accadono”. Non c’è nulla che “accade” ma c’è un finale che ha luogo in quanto ci sono un insieme di scene (unità di conflitto) legate fra loro mediante la catena causa-effetto. Questa affermazione non dovrebbe scandalizzare nessuno in realtà. Chiunque abbia letto più di un libro conosce bene, da lettore, cosa significhi imbattersi in questa catena di causa-effetto che lega fra loro le varie scene. E sa bene anche cosa si prova quando tale catena viene meno o non è espressa in modo particolarmente chiaro: personaggi che sembrano agire contro la propria “natura”, azioni inspiegabili o strumentali, coincidenze troppo banali o improbabili. Nella narrativa, al contrario che nella realtà, il caso e il caos sono elementi indesiderati e vanno pertanto combattuti con ogni mezzo.
Nel corso dei secoli questa tendenza del lettore a desiderare ordine ha portato gli autori a muoversi in una serie finita di situazioni o temi in cui si sviluppa l’azione drammatica. Nel XIX Secolo, il drammaturgo Georges Polti, con enorme spirito cartesiano e tassonomico, catalogava in tutto trentasei situazioni drammatiche alle quali è possibile ricondurre ogni situazione narrativa che sia stata mai scritta. Senza esagerare con lo strutturalismo ad ogni costo, da autori bisogna evitare di trascurare la suddivisione elementare che aiuta ad avere una pietra di paragone; questa è indispensabile per dosare le proporzioni fra le parti in cui abbiamo suddiviso il romanzo. Le situazioni narrative rappresentano stratagemmi collaudati per trasformare la catena di causa-effetto in un crescendo di tensione che tenga il lettore attaccato al nostro lavoro. Ad esempio, la situazione “triangolo amoroso” si può declinare con la tipica trama dell’adulterio, ma anche dell’adulterio con delitto. Non bisogna confondere le situazioni col genere e neppure con lo stile: possiamo raccontare un triangolo amoroso coi toni della tragedia o della commedia. Tuttavia, il modo di introdurre i personaggi, il tema della vicenda, la successione delle scene occupano uno spazio ben preciso. Una suddivisione sufficientemente generica da permettere molta libertà all’autore ma anche abbastanza strutturata da poter mettere ordine nelle nostre idee e nei concetti che intendiamo esprimere è quella che divide l’opera di narrativa in inizio, parte centrale e finale. Le proporzioni date a queste parti, in termini di lunghezza, sono le seguenti: parte iniziale e finale coprono all’incirca un quinto della lunghezza totale del libro ciascuna, mentre la parte centrale occupa i restanti tre quinti.
Prima di cominciare a parlare dell’inizio, è necessario compiere uno sforzo di astrazione ed allineare i cinque elementi chiave di una storia. Sono quelli già analizzati in un precedente articolo (“Il tema e la trama”): Personaggio, Situazione, Obiettivo, Opponente e Disastro. Prima di ogni strutturazione dobbiamo identificare nella maniera più chiara possibile questi elementi. Se mancano o sono vaghi è inutile proseguire: non può esserci struttura (e nemmeno storia) senza questi elementi.
Riepiloghiamo brevemente.
Il personaggio è il personaggio principale (o focale). Ne abbiamo parlato in uno degli articoli precedenti di questa serie. È lui che agisce e reagisce agli stimoli esterni, è lui che combatte le avversità, è in lui che il lettore dovrà immedesimarsi. Non coincide necessariamente con il narratore, ma è il soggetto del nostro scrivere. E questo ci porta al secondo elemento: la situazione. Non esistono personaggi senza un adeguato background: tutte le loro azioni derivano da circostanze che accadono o sono causate da un ambiente. In una parola, da situazioni. Queste sono il suolo su cui appoggerà la costruzione della nostra storia.
Perché il protagonista agisce? Perché ha un obiettivo. Non si fugge da questo: un personaggio che non abbia una meta da raggiungere, qualunque essa sia, non darà mai origine ad una storia. Resterà immobile e ogni azione che lo obbligheremo a svolgere, risulterà finta e artificiosa. L’obiettivo inoltre, non solo deve esistere ma deve essere anche difficile da raggiungere. Gli obiettivi semplici non originano storie. In altri termini serve un opponente: un avversario. Questo può essere un essere umano, una forza della natura o anche un pensiero, non importa. L’importante è che questo accidente impedisca al nostro soggetto di raggiungere il proprio obiettivo. Più è spaventoso e temibile l’opponente, più sarà efficace la nostra storia. È una questione di tensione narrativa: il collante universale che rende una storia appetibile e fa affezionare i lettori. La tensione è ciò che deriva dal quinto elemento della nostra breve lista e cioè il disastro. Nella sua ricerca, il nostro protagonista alla ricerca del proprio obiettivo capiterà in una situazione pericolosa, paurosa, impossibile da gestire, dove ogni speranza sembrerà perduta. Il suo opponente è sul punto di distruggerlo e sta per trionfare su tutta la storia! Ed è proprio lì che c’è il climax della tensione. Accade qualcosa che ribalta la situazione verso un finale insospettato in cui il protagonista otterrà il suo obiettivo (lieto fine), non lo otterrà (finale negativo) oppure la storia resta sospesa (finale incerto), ma in ogni caso ribalterà il disastro a suo favore con conseguenze più o meno calcolabili.
Una volta isolati questi cinque elementi, possiamo cominciare la nostra opera di strutturazione sistemando questi elementi in due brevi proposizioni. Due e non più di due, col minor numero di parole possibile. La prima è una frase affermativa e definisce personaggio, situazione ed obiettivo. La seconda è un’interrogativa diretta e mette assieme opponente e disastro. La risposta alla seconda frase potrà essere: sì, no o forse ma, in ogni caso, rappresenta la risoluzione della nostra storia. A questo punto lo scrittore principiante si ribella e dice che la sua storia non entrerà mai in queste due frasi. Se è così, significa che la storia non è efficace e va cambiata. In ogni caso, l’autore ha il dovere di sforzarsi a questa strutturazione in modo da comprendere anche quegli elementi che non sono finalizzati e vanno aggiustati o del tutto eliminati. Una volta ottenuta questa coppia di frasi, cominciamo a preoccuparci di come strutturare la nostra storia in inizio, parte centrale e parte finale. L’inizio può essere a sua volta strutturato in sei categorie: dove iniziare, come farlo, cosa inserire nell’incipit, cosa non inserire, in che modo introdurre le informazioni necessarie allo sviluppo dell’azione e quando è possibile ritenere concluso l’inizio.
Va da sé che una storia possa essere iniziata in tanti modi. Ognuno in realtà ha una formula: a Hollywood nel periodo classico della cinematografia fra gli sceneggiatori circolava questo motto: “comincia sempre con un arrivo”. Qualcuno che arriva, qualcuno di atteso o di inaspettato, in ogni caso produce un cambiamento ed è questo l’elemento principale. L’importante (sia che scegliate di seguire il consiglio classico di Hollywood che perferiate vie diverse), è che esista una situazione stabile in cui si introduce un elemento di cambiamento. Questo cambiamento (non necessariamente disastroso, può trattarsi anche dell’arrivo di una buona notizia) impatterà sulla vita di un personaggio il che ne provocherà l’azione. Questa azione comporterà sul piano causa-effetto alcune conseguenze. La definizione e la descrizione di situazione, cambiamento, stimolo motivazionale e reazione devono essere il più possibile chiare e logiche. In altri termini questo è il primo anello della catena di causa-effetto cui facevamo riferimento poco fa.
Dove iniziare quindi? Una regola non scritta consiglia di iniziare poco prima che cominci il cambiamento, oppure immediatamente dopo. Pensate a quei gialli in cui il libro inizia poco dopo l’omicidio (a cadavere ancora caldo), oppure immediatamente prima, descrivendo le azioni dell’assassino pur senza rivelarne l’identità. Ciascun inizio comporta successive scelte e conseguenze: se si comincia troppo prima del cambiamento e si indugia sulla situazione imperturbata può annoiare il lettore; se al contrario si comincia nel mezzo dell’azione il lettore può sentirsi spaesato e non comprendere bene cosa sta accadendo né perché. Cominciare dopo il cambiamento invece ci obbliga a inserire dopo una spiegazione su quanto avvenuto. Questo può significare un flashback, ma anche una digressione. È importante quindi dosare bene le proporzioni e scegliere la soluzione più adatta al tipo di storia che si sta raccontando.
Come iniziare? Il primo paragrafo del vostro libro deve essere talmente accattivante che il lettore non deve poter fare a meno di andare avanti e leggere il secondo, e così via. Questo include un incipit efficace e un chiaro contratto col lettore: è qui importantissimo essere originali e allo stesso tempo saper soddisfare le aspettative iniziali del vostro lettore modello. Se scoprite di avere una storia senza aver mai pensato al tipo di lettore a cui la vostra storia possa piacere, è giunto il momento di pensarlo adesso. Perché nelle prime frasi del vostro libro vi giocate il 90% del vostro pubblico. Da lettori, anche inconsapevolmente, appena cominciamo a leggere un libro ci aspettiamo di comprendere immediatamente dove siamo, cosa sta accadendo e in cosa dobbiamo immedesimarci. Più velocemente si risponde a queste domande, tanto prima ci sentiamo a nostro agio perché abbiamo capito il contesto, la situazione. Qui molti autori danno sfogo alle migliori interpretazioni simboliche, ma l’importante è sempre esser chiari nello stabilire tempo, luogo, circostanze e punto di vista, senza ambiguità e senza perdite di tempo inutili. E avendo ben chiaro cosa non va inserito in un inizio: il passato. Qualunque cosa accada, non inserite mai il passato nell’inizio poiché qui il lettore deve appassionarsi alla storia e domandarsi cosa accadrà nel futuro. Avrete modo di parlare del passato più avanti, nella parte centrale ma mai qui. È consentito esprimere solo quegli elementi del passato che giustificano causalmente cosa sta per accadere nell’immediato e soprattutto farlo col contagocce.
Infine bisogna determinare con chiarezza dove finisce l’inizio. Questo ha irrevocabilmente fine nel momento in cui il personaggio decide di agire o reagire all’accaduto e questo deve essere fatto nel più breve tempo possibile e soprattutto deve risultare una reazione spontanea e logica allo stimolo motivazionale ricevuto. In altri termini al termine dell’inizio, il personaggio deve essere profondamente coinvolto nell’azione poiché questo stimolo che provoca l’azione (sia questa una battaglia, una lotta, un processo, un duello e così via) caratterizza in profondità il vostro personaggio agli occhi del lettore e giustificherà tutte le sue decisioni future. Passiamo a considerare la parte centrale della nostra storia. Questa parte è il cuore di una qualsiasi vicenda narrata ed è costituita da un alternarsi (più o meno corposo) di due unità atomiche fondamentali: la scena ed il sequel. La scena è l’unità di base del conflitto: attraverso di essa uno stimolo motivazionale procura il cambiamento nello stato mentale di un personaggio. Questo mutamento produce, secondo una chiara relazione di causa-effetto, un’azione coerente con lo stimolo ricevuto, proporzionale ad esso e accordata alla natura del personaggio. Il sequel è un raccordo fra due scene e, a differenza di queste, non contiene conflitti. Attraverso le scene ed i sequel si realizza quella catena di causa-effetto di cui si parlava all’inizio di questo articolo: in altre parole, partendo dalle informazioni contenute nella parte iniziale, i personaggi attraversano una serie di conflitti (scene) che, montando in un climax di tensione, li condurranno verso il finale. Attraverso scene e sequel la storia, così come l’abbiamo ideata noi autori, ha modo di andare avanti facendo passare il lettore attraverso molti conflitti minori che lo terranno il più possibile attaccato alla trama.
Come esempio si pensi al bellissimo libro “Le avventure di Pinocchio” di Collodi e si faccia mente locale sulla struttura: Pinocchio è una marionetta di legno fatato che magicamente si muove e parla come un bambino ma desidera diventare un bambino in carne ed ossa. Riuscirà a sopravvivere a varie disavventure e a realizzare il suo sogno sconfiggendo la sua natura di discolo ribelle e bugiardo? Questa è la coppia di proposizioni di cui abbiamo parlato che introducono i cinque elementi fondamentali della storia. Ciò detto il libro presenta tutta una serie di scene (scena del grillo parlante, Pinocchio e le pere, Pinocchio ed il teatrino di Mangiafuoco, l’incontro con il Gatto e la Volpe, la scena del gambero rosso, il Paese dei Balocchi ecc.) attraverso le quali la tensione del lettore viene sempre tenuta sospesa mediante i pericoli mortali attraversati dal simpatico discolo (Ce la farà Pinocchio a sfuggire agli spietati assassini? Sopravviverà al pescecane?). L’obiettivo ultimo, quello di diventare un bambino vero, verrà raggiunto solo nel finale ma il vero motivo per il quale da lettori ci appassioniamo a questa storia magnifica sta tutto nei conflitti intermedi, ossia nelle scene superbamente progettate da Collodi che offrono una panoramica su una serie di personaggi memorabili e lo fanno mantenendo l’unità attraverso più chiavi di lettura (la fiaba, il tema pedagogico, il tema morale, la satira sull’umanità e così via).
La descrizione approfondita di come si possano scrivere scene e sequel esula dal tema di questo articolo. Tuttavia si tenga presente che, essendo anche i dialoghi (introdotti in un articolo precedente) unità di conflitto, spesso si identificano con le scene. In altri casi una scena può non contenere dialoghi ma solo azione. Ad ogni modo dobbiamo stare sempre attenti a mantenere viva la tensione nel lettore. Passiamo ora alla parte più difficile di tutte: il finale! In questo prende posto tutto ciò che accade dopo il climax: è una sezione molto delicata poiché in essa vengono sciolti tutti gli interrogativi disseminati all’inizio e nella parte centrale: ogni cosa deve trovare il suo posto e tutto deve risultare chiaro. Quanti scrittori tradiscono le aspettative dei propri lettori con la scelta di un finale inappropriato? La scelta del premio o della punizione che attende il personaggio principale al termine di tutte le traversie che gli abbiamo fatto superare può trasformarsi in un vero e proprio incubo, come potrebbe raccontarci il protagonista del romanzo “Misery” di Stephen King! È tanto più arduo quanto più siamo stati bravi a mantenere il lettore attaccato alle nostre pagine con una serie di scene avvincenti e a creare un climax appropriato. Nel finale si concentrano tutte le aspettative del lettore, pertanto la sua punizione o il suo premio devono essere adeguati a tali speranze. Nella letteratura contemporanea anche il finale sospeso è un’opzione valida: il protagonista ha scampato il pericolo, non ottiene il suo obiettivo iniziale ma ottiene qualcos’altro. È cambiato, ha compreso qualcosa di importante per la propria esistenza o il senso della vita, ha imparato che il suo obiettivo iniziale era vano. Oppure l’esito è incerto, il protagonista è a un bivio e il lettore non saprà mai quale strada sceglierà (questo tipo di finale aperto lascia adito a possibili seguiti e viene spesso usato nelle saghe).
Quali caratteristiche deve avere un finale, in ogni caso? Deve essere desiderato, nel senso che il lettore deve desiderare di scoprire il finale, deve essere affezionato al personaggio principale. Se non è così abbiamo sbagliato qualcosa nella creazione della storia e nessun finale ci può salvare se il lettore se ne frega di che fine facciamo fare al protagonista. In secondo luogo un buon finale deve essere logico e coerente; deve essere la conclusione più diretta date le premesse e le informazioni che abbiamo fornito al lettore. Un finale che usa più informazioni di quelle possedute dal lettore apparirà come campato in aria. un finale che ne usa meno finirà per non spiegare tutte le domande poste al protagonista e sarà insoddisfacente. Un buon finale poi deve essere non anticipato: i finali prevedibili semplicemente non funzionano. Può sembrare una banalità ma molto spesso durante la stesura del romanzo non ci si rende conto che la quantità di informazioni date al lettore è eccessiva e quindi il finale progettato risulta banale. Questi errori vengono normalmente fuori in fase di revisione se non sono stati messi a fuoco a dovere prima della stesura e, come sempre, correggerli è tanto più oneroso quanto più tardi vengono scovati.
Sarebbe molto pretenzioso pretendere di esaurire qui tutte le problematiche inerenti il finale e invitiamo chi fosse interessato ad approfondirne lo studio su uno degli ottimi manuali che si trovano in circolazione. Qui possiamo solo ricordare che non è mai questione di lieto fine, bensì di trovare un finale, buono, cattivo o incerto per il protagonista, ma che soddisfi il lettore. E questi resta soddisfatto solo quando la tensione accumulata viene completamente rilasciata attraverso lo scioglimento di tutti (e proprio tutti) i nodi narrativi creati in precedenza. Una volta che ciò è avvenuto, semplicemente il libro è finito e andare oltre quel punto semplicemente non ha più significato.
Infine è sempre necessario ricordare che questa struttura che deve esistere nella nostra storia non deve farci pensare che un romanzo è una sorta di nave composta da compartimenti stagni. La bravura dell’autore sta proprio nell’avere una struttura senza che questa sia evidente al lettore, il quale deve ignorare questi dettagli tecnici. Le varie parti di un’opera di fantasia, non solo narrativa, ma anche cinematografica, teatrale, musicale ecc, sono strettamente interconnesse e devono lavorare assieme per raggiungere il risultato finale: la soddisfazione del lettore, spettatore, ascoltatore. Altrimenti si corre il rischio di ripetere l’aneddoto famoso riguardante il drammaturgo George Kaufman quando un autore gli chiese cosa ci fosse di sbagliato nel suo terzo atto. Kaufman candidamente rispose: “il primo”.
Appuntamento alla prossima settimana con il nostro corso di scrittura creativa!