Sai, di tutte le cose che ho dimenticato mi è rimasta una sensazione, come di vuoto. E non so se a te capita ma, quando entro in quella casa, la sensazione mi prende e le pareti si avvicinano al mio corpo però non vorrei, ecco, che tu pensassi ad un senso di soffocamento. Come la chiamano? Claustrofobia. No, non è quella. Forse dovrei dire che le pareti si adagiano su di me. Mi rivestono. Poi mi guardo allo specchio della camera da letto e voilà, ci sono io trent’anni fa, con un vestito a fiori come la carta da parati; io che mi metto il bigodino singolo alla ciocca d’avanti e mi sento bellissima, un po’ Greta Garbo un po’ Audrey Hepburn, ma ti sto parlando di trent’anni fa, eh?
Dici, perché sono cinque minuti che ti sto parlando delle pareti? Beh, non so da quanto tempo tu non entri in quella casa, ma devi sapere che ci sono solo pareti, lì dentro. E pavimenti, ovviamente, altrimenti sprofonderesti in qualcosa tipo l’inferno o, peggio ancora, finiresti nell’appartamento della signora Torelli, quella che faceva l’aspirapolvere alle tre di notte. Tutto il resto, tutto quello che c’era quando c’eravamo anche noi, non c’è più.
Di quella casa ricordo molte cose, come il formaggio con la pera. La nonna me lo faceva sempre, come dessert, ed era una roba rivoltante, credimi. Il peggio era quando le prendeva l’estro creativo, capisci?, tipo La prova del cuoco ante litteram, e mi serviva fragole con formaggio, ananas con formaggio e altra roba strana che ho volutamente dimenticato. E poi ricordo Luigi Tenco, quello che si è suicidato. A mezzogiorno la nonna accendeva la radio e, chissà come, beccava sempre Tenco o forse era Tenco che beccava lei, che se ne stava accucciato nella radio, zitto zitto, per poi esplodere lentamente nel soggiorno quando la nonna premeva play.
Di quella casa ricordo la nostra vita entro le pareti, l’odore del brodo di pesce il venerdì, le parole incrociate del nonno e il tiggì della sera con un giornalista dall’accento strano ma soprattutto, soprattutto ricordo il borbottio della caffettiera. Sai, ho sempre pensato che le caffettiere fossero un po’ come delle vecchie zitelle: matrone con il culo grosso che se ne stanno lì, in piedi, con un pugno puntato contro il fianco e il gomito a manico, a borbottare senza sosta fino a quando non spegni il fuoco ai loro piedi e non le fai liberare di tutto l’amaro che hanno dentro. La nonna diceva sempre che c’è poesia, dentro il caffè. E, guarda, sai cosa vorrei non aver dimenticato? La tazzina di nonna, quella del caffè delle sette di mattina. Di quella tazzina ricordo una mancanza: il manico, che provvidi io stessa a eliminare durante i miei studi sul moto parabolico. Non ricordo nient’altro, nemmeno il suo colore. Forse era rossa, come questa qui del bar, oppure bianca come la mia preferita che ho a casa, o magari a fiori viola. Amava gli iris, la nonna, te l’ha mai detto?
E’ terribile dimenticare qualcosa che ha fatto parte della vita quotidiana di chi amavamo. Pensaci: di quella tazzina mi è rimasto il nome, che però resta uguale per tutte le tazzine che ho visto e che vedrò nella mia vita. Eppure, nessuna di quelle è la sua. Nessuna di quelle tazzine significa il suono della sveglia e lo sbuffare della nonna quando al quarto tentativo riusciva finalmente a mettersi in piedi, e i suoi passi condotti verso il soggiorno a ritmo zigano, un rumore ferroso di caffettiera e il crepitare del fornello sotto di essa. Può sembrarti stupido, eppure è una ricchezza che ho perduto, questa, qualcosa che avevo e che il tempo mi ha portato via, una sfumatura all’anno fino a questo momento, in cui di un oggetto amato ricordo solo l’assenza.
Dai, su, versami altro caffè e non pensiamoci più e poi andiamocene, ché si sta facendo tardi e non è bello entrare nelle case vuote col buio. Ah!, ti ricordi il braciere, quello che la nonna odiava perché ci era caduta dentro, una volta? Beh, è ancora lì: l’ho trovato nello sgabuzzino, dove sospetto che la nonna l’avesse nascosto per non inciamparci una seconda volta. Lo vuoi? Magari ti può servire…anzi no, tu hai i bambini, possono farsi male: metti che l’imbranataggine è genetica? A parte il braciere non c’è più niente. Solo muri, carta da parati e, con un po’ di fortuna, noi due, come trent’anni fa, un po’ come in una foto che non abbiamo scattato mai.