
Autore: Giuseppe Filidoro
Pubblicato da Osanna - 2013
Pagine: 280 - Genere: Romanzo d'ambiente
Formato disponibile: Brossura
Collana: Le note azzurre

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Ambientato in un Paese del Sud, si tratta di un mosaico di personaggi che si incastrano nella storia attraverso il fil rouge del dottore del Paese, Don Vincenzo, che si fa carico dei problemi dei suoi compaesani, i quali, pur conducendo un’esistenza apparentemente ordinaria, si portano dentro la loro storia passata, la quale riemerge e chiede di essere rappresentata. Così anche un piccolo paese diventa spaccato del grande mondo, e anche lì dove pare che il tempo sia fermo, quasi irreale, si agita l’inquietudine tipica del genere umano.

Don Vincenzo si trova ad apertura di un romanzo magistrale, che verghianamente sembra essersi fatto da sé, uscito nudo e schietto con tutta la sua verità e naturalezza dalle mani dell’autore: Giuseppe Filidoro, Psicoanalista e Scrittore di ingegno, soprattutto se consideriamo che Il silenzio della neve è la sua opera d’esordio. Un’opera naturalistica di alto lignaggio; c’è chi dice che i più bei libri sul Sud li scrivano quelli del Nord; ebbene questo contraddice l’opinione: è uno dei più libri del Sud della letteratura italiana, scritta da un uomo del Sud, nato a Lavello, in Basilicata.
Attraverso Don Vincenzo e il suo alter ego Donatino Sapienza abbiamo le chiavi d’accesso ad una realtà che sembra oniricamente ferma e scandita dal ritmo delle ore, dei giorni, delle stagioni, mentre domina incontrastato il silenzio, della neve appunto, dentro il quale si agita la vita di moltissimi personaggi, tutti accompagnati da epiteti che ne individuano ruoli sociali, peculiarità intrinseche fisiche o morali. E’ Don Vincenzo il medico di questo paese del Sud, che io collocherei in Sicilia, accanto alle opere del grande Verga, di cui avverto l’influenza magnifica, anche nel riproporre una lingua che presenta le strutture dell’idioletto; è un medico bravo e generoso, che vive la sua professione come una missione, che non si conclude con le ore di lavoro, ma si dilata nella intera sua esistenza fino a coincidere con essa. Ad averne di medici così! Questo capita solo nei paesi del mio amato Sud. Don Vincenzo non ha epiteti, lui è solo Don Vincenzo, il figlio di Donna Maria, è un letterato, un classicista, un incontro tra letteratura e scienza (che bella eccezione! Oggi che i medici sono solo specialisti a volte discutibili del loro settore!). La sera ripassa la lezione del giorno, un punto sulla situazione del paese, ma soprattutto lo affligge il caso di Clemente “Crescenza” e di sua figlia Rosina, che, un tempo bellissima agli occhi del padre, ora è sofferente ed obesa e ci vogliono tre persone per sollevarla dal letto e spostarla sul seggiolone rinforzato. “Crescenza” ne ha fatto una fissazione e vorrebbe vederla sposata, ma questo è l’ultimo pensiero di Rosina; il padre attribuisce tale disgrazia al malocchio, alla vendetta degli dei, ad una macumba, in una visione primitiva della religione. Qui tutto sa di primitivo e di antico: ti immergi in un’altra realtà e il Dio è sempre presente nelle parole dei protagonisti che, in fondo, tra imprecazioni varie e umane amarezze, si affidano a lui in una visione provvidenziale. Esistenze apparente normali, che scivolano sulla vita più che viverla intensamente; a volte ne sono ai margini, come Angelina Sapone che fa fatture per stornare la iella e annullare i malefici altrui. Ma essa è l’estrema ratio di questo paese dimenticato; il suo odore fetente è la sua dannazione; inoltre pesanti sospetti gravano su di lei, di cui nulla si sa, ma molto si suppone.
In Il silenzio della neve ogni protagonista, un nome da investigare, una storia nascosta, un passato enigmatico ed oscuro; anche Don Vincenzo è avvolto nella nebbia e tante le dicerie su di lui, scapolo che vive con la madre; cose di paese, insomma, storie dimenticate o dimentiche di se stesse che l’autore dall’esterno riporta alla luce come uno archeologo/psicoanalista che ridisegna i paesaggi e i sotterranei dell’anima, con il bisturi della scienza e dell’anima, senza scivolare mai nel rischio in cui uno psicanalista potrebbe incorrere: quello di un’indagine scientifica e accademica dei casi psichiatrici. Il silenzio della neve si costruisce pagina dopo pagina e con esse il paese prende forma e sostanza con tecnica narrativa di sicuro successo. Sì, perché si vengono a ricostruire i tasselli di quel mosaico che è il paese del Sud, ma, più in generale, si dipinge il grande mosaico dell’animo umano. C’è chi è partito, si atteggia a “polentone”, entrando a far parte della nutrita schiera dei “ciaonè”, geniale appellativo, in cui si sente il tipico intercalare del Nord. Ma chi si è allontanato dalle proprie radici ha davvero cambiato il proprio destino? Sembrerebbe di no: è rimasto “terrone”, vilipeso e sbeffeggiato dal ricco polentone, costretto a vivere ai margini di una società che lo individua come oscuro straniero. C’è chi ha tentato di cambiare il proprio destino, come Biagio ‘U Cafone, che è partito ventenne e presto tornato dalla Germania come un cane bastonato. Come non pensare all’ideale dell’ostrica nel “ciclo dei Vinti” verghiano?
Chi si allontana dalle proprie tradizioni è un vinto in partenza, meglio rimanere attaccato come l’ostrica allo scoglio, per evitare finché si può di essere travolti dalla “fiumana” del progresso, che miete vittime in tutte le classi sociali, colpendo per prima le più deboli e poi tutti fino all’Onorevole Scipioni. Almeno in questo paese, si è qualcuno nel bene o nel male, ciascuno con la sua identità, il suo ruolo, anche se questo non sottrae alla complessità della vita, e dentro il silenzio della neve prende forma e forza il passato, quel nostro patrimonio, anche ingombrante, con cui non si può evitare di fare i conti. Ecco il caso dell’ipocondriaco “Gigino ‘u Student’, calzolaio di professione, ex studente interno del Collegio delle Orsoline, lettore e scrivano per gli incolti del paese”. Afflitto da malattie immaginarie, un pomeriggio, nel momento della calandra, si riscuote turbato dal sonno come in presenza di un terremoto, ma nulla si muove intorno a sé… allora di corsa da don Vincenzo che emette la sua diagnosi superba: ”Vedi Gigì, noi abbiamo tante cose dentro, ricordi sfumati, pezzetti piccolissimi di memorie e tracce di esperienze vissute, nella realtà e nei nostro sogni, di cui non sappiamo niente, oppure non vogliamo sapere. Ma queste cose, alcune magari belle, altre brutte e spiacevoli, hanno vita dentro di noi senza che lo sappiamo. E poiché sono vive, prima o poi si fanno sentire in qualche modo, magari a distanza di anni, anche se quasi mai riusciamo a conoscerle”. Stupendo questo don Vincenzo che si stupisce egli stesso di come divinamente le parole siano uscite da sé, come se egli stesso non parlasse, ma come dice Lacan, fosse parlato dall’“altro”, il nostro inconscio, il serbatoio depositario delle nostre verità più intime e nascoste, al punto che nemmeno noi sappiamo. Sì, perché, come dice il Maestro S. Freud, “L’Io non è padrone nemmeno a casa sua”. In queste semplici, profondissimi parole, si avverte tutto lo scavo dello scrittore, che traduce per il volgo il messaggio complesso della psicoanalisi. “Tutto quello che aveva detto, che sentiva nuovo e insolito, lo aveva già dentro di sé. E questo, indubbiamente, era straordinario”. Don Vincenzo con queste parole si rivela a se stesso, parlando a Gigino parla con se stesso, con quel mistero che è la sua vita.
E poi un’epistola dall’America annunzia il ritorno di Concetta “ Capatosta”, sorella di Biagio ‘U Cafone e questo fa sognare il calzolaio: un scalata sociale si prepara per lui? (segretamente innamorato della Capatosta?). Mentre l’ansia cresce per Biagio: qualcosa arriva a scombussolare il suo precario equilibrio; sì, perché questo è precario per tutti e tutti viviamo sul limite, con un passato da gestire, un presente da vivere ed un futuro quanto mai incerto. E questa condizione borderline si sente nel testo, dove i protagonisti stanno come tutti gli uomini “come in autunno sugli alberi le foglie”. La vita, che la si viva in una metropoli o in un paese dimenticato da Dio, è per tutti fragile e complessa al tempo stesso, mentre dentro una esistenza se ne agitano altre che chiedono di essere rappresentate. Queste vivono dentro don Vincenzo che si fa carico di sé e degli altri, con sacrificio e abnegazione, attendendo una passeggiata sul far della sera cui tiene particolarmente: quella col suo alter ego, Donatino Sapienza, il vecchio professore di Lettere del Liceo locale. Tuttologi, conversano di tutto, dalla letteratura alla musica, nel momento della massima elevazione spirituale di tutto il paese, che si chiede cosa mai abbiano da dirsi tutte le sere, fino a tarda sera, fin da ragazzini. Mentre ‘u Student’ ha fatto lo scavo consigliato dal dottore e si macera l’animo scoprendosi un “fetente”egoista; quindi anche questo paese, apparentemente tranquillo, soffre del male oscuro dell’anima.
Potrei continuare ad libitum ma scoprirei l’intera trama di Il silenzio della neve di cui vi ho raccontato qualcosa, certa che una recensione debba far capire di cosa si tratta, sì da invogliare alla lettura di un libro, quale quello di Filidoro, che scava nell’animo di un piccolo paese, che trova nelle ultime riflessioni di Donatino Sapienza il suo testamento spirituale . Quante volte rilegge quelle pagine don Vincenzo e quante volte le ho rilette io! Che apprezzo Il silenzio della neve come un magico testo che racchiude in tono lieve tutto il senso della storia dell’umanità.