
Autore: Leïla Slimani
Pubblicato da Rizzoli - Aprile 2016
Pagine: 188 - Genere: Narrativa Contemporanea
Formato disponibile: Copertina Rigida
Collana: Scala stranieri

📗 Acquista scontato su ibs.it
📙 Amazon (spedizione gratuita)
📙 Versione Kindle
📙 Acquista online
✪ Le recensioni dei lettori su Goodreads
In una Parigi grigia si distingue l’insoddisfazione di una donna che fa della passione carnale l’unica cura dei suoi mali. La trappola in cui è incastrata non è soltanto la famiglia o il lavoro. La trappola più grande è la sua testa, persa in un circolo vizioso d’insoddisfazione che sfocia nell’ossessione.

È divorata dalle sue ossessioni. Non può farci niente.
Parigi è la triste cornice di una storia che lascia un boccone amaro conficcato nella gola e che non vuole saperne di scendere. Parigi è la città che cela la promiscuità sotto le gonne o dietro i cassonetti per le strade. Ma soprattutto, Parigi assiste inerme all’autodistruzione di una donna che anziché vivere, decide di sopravvivere.
Adéle ha un’ossessione. Le sue giornate ammazzano la monotonia tra un paio di calze attillate e gonne strappate, incontri fuggiaschi e accoppiamenti voraci per le scale di edifici sconosciuti. Adéle è una donna che combatte contro se stessa, contro i propri demoni.
Ha sposato Richard, un uomo mediocre, convinto della felicità della moglie e del fatto che entrambi vogliano la stessa cosa dalla vita: una famiglia. Adéle ha avuto un figlio, Lucien, un bambino irascibile, a tratti dispettoso, ma con un forte attaccamento materno. Adéle non ha la stoffa della mamma, eppure ci prova. Ci prova perché in fin dei conti vuole bene a quel bambino che è sangue del suo sangue, ma al tempo stesso è spaventata all’idea di un legame così profondo. Perché Adéle vorrebbe davvero appartenere a qualcuno, sentirsi talmente legata a un essere umano da provare quel viscerale senso di benessere condiviso da tutte le persone innamorate. Ma non ci riesce, e il perché lo fa intendere pagina dopo pagina, sottolineando il suo animo tormentato, la sua fame di sesso che non viene mai saziata, la sua dipendenza dagli incontri occasionali con uomini che non hanno alcun interesse per lei, se non per il suo corpo.
Adéle impara a guardarsi con gli occhi degli altri e capisce che in realtà non è altro che un guscio vuoto, abbandonato alle intemperie e alla miserabilità della vita, di quella vita che non è mai stata apprezzata.
Adéle non riesce a pensare ad altro. […] Vorrebbe essere una bambola nel giardino di un orco.
Adéle ci viene presentata come una sex addicted, una ninfomane alla ricerca di prede per tutta Parigi con lo scopo di colmare quella grande voragine al centro del petto. Ma non è difficile capire che la vera e più nascosta dipendenza di Adéle non è altro che il sapore dell’infelicità, celato da incontri sessuali violenti, dalla seduzione di uomini che appartengono alla vita di suo marito (amici, colleghi) o che vorrebbero appartenere alla sua senza successo. Adéle è una donna che si nutre di miseria e il passo per superare il punto di non ritorno diventa ormai un punto sfocato nell’universo.
Nel giardino dell’orco è il romanzo d’esordio della scrittrice marocchina Leïla Slimani, giornalista di mestiere che propina la sua prima opera edita Rizzoli a un pubblico che forse ricorda il tormento dell’infelicità in una famosa opera di Gustave Flaubert, Madame Bovary. Non ho mai letto quest’opera letteraria, eppure il paragone a grandi linee risulta semplice anche per chi come me è ignorante in materia.
Il romanzo della Slimani presenta una protagonista che vive nel tormento ed è proprio quel carattere apatico, quel menefreghismo accentuato dal desiderio di voler perseguire i propri bisogni, quell’autolesionismo volontario che mi hanno portato a distanziarmi dal romanzo.
Adéle è un continuo rincorrere gli orchi per tutta la durata della storia, è una donna che cede alle tentazioni pur non volendole davvero, ma soprattutto è una persona che vuole farsi del male. Nonostante la lettura si spieghi rapida e l’autrice utilizzi uno stile scorrevole, soffermandosi su scene nitide e un linguaggio adatto a scene da sfondo erotico, Nel giardino dell’orco è un romanzo che, giunto alla conclusione, mi ha regalato soltanto una cosa: un sospiro di sollievo, per avere la fortuna di non essere come Adéle. Che nonostante le delusioni, nonostante le incomprensioni, nella vita non credo di essere mai arrivata a quel punto di non ritorno così buio da non sapere neanche accendere una candela per ritrovare il calore umano.
Approfondimento
Le persone insoddisfatte distruggono tutto quello che hanno attorno.
Richard potrebbe essere additato come l’uomo incapace di far scoprire a sua moglie l’importanza dell’amore. Potrebbe essere accusato di essere la causa della sofferenza di Adéle, ma in realtà l’unica colpa di cui pecca è la sua imbarazzante debolezza. Richard vuole convincersi che la loro vita sia perfetta, che Adéle desideri il suo stesso futuro, e di conseguenza continua a ignorare quei segnali deboli, ma talvolta così evidenti, che indicano del marcio nascosto tra le loro lenzuola.
Richard è accecato dall’amore, forse non tanto per quella donna che dorme al suo fianco quasi ogni notte, ma per quell’idea di famiglia che ha rincorso per tutta la vita. È della famiglia che è innamorato ed è della famiglia che vuole preservare un dolce ricordo. Ed è per quell’amore che in fin dei conti decide di sottomettersi. Come se questo non lo rendesse meno debole e patetico. Crogiolarsi in un’illusione non è un altro sinonimo di dipendenza?
Nel giardino dell’orco non è un romanzo che consiglierei a chi non vuole porsi domande sull’infelicità, a chi non vuole analizzare l’animo contorto di una persona che abbraccia il dolore come una seconda pelle e di cui non riesce a sbarazzarsene. Ma per chi nei libri si accontenta di tante domande, tante riflessioni e poche risposte (forse molte sottintese), potrebbe fare un tentativo.
Cristina Migliaccio