Che La grande bellezza sia un film girato bene lo si intuisce subito, quando il regista, Paolo Sorrentino, ti tira dentro, brutalmente, nel bel mezzo di un festino animato da una strana ed impalpabile umanità danzante. Uno spaccato realistico delle notti romane, in cui primeggia la figura del protagonista, Jep Gambardella, re delle serate mondane, giornalista, ex scrittore, mattatore inarrivabile, stile e classe ineguagliabili, che, se vuole, riesce a rovinarla, una festa, e sa rimettere in riga qualunque ospite con ironia, e savoir faire, ma che, pur avendo ottenuto tutto ciò che desiderava, dietro l’apparenza nasconde più di qualche velo di malinconia.
Uno scenario ne´La grande bellezza che è fotografato con lucido realismo e che non può né vuole piacerci, così come non piace allo stesso personaggio nato dalla penna dello sceneggiatore, perché questi trenini fatti di una varietà umana persa nel proprio egoismo “non vanno da nessuna parte“, perché non ha senso scrivere del nulla e del resto non c’è riuscito nemmeno Flaubert. La storia non ha quindi nulla di trascendentale ed anzi forse è debole quando in qualche modo prova ad uscire dal proprio percorso narrativo/descrittivo per giungere al proprio epilogo, e per far ciò scomoda la Santa ed i suoi amici cigni, ma La grande bellezza ha una struttura ed una portata apprezzabili; in molti momenti assume connotati surreali poiché il protagonista spazia con una certa frequenza su e giù tra i rivoli del tempo alla ricerca delle proprie sensazioni più vere e di un tessuto di emozioni credibili, che a 65 anni suonati nulla riesce a restituirgli.
La grande bellezza e l´Oscar
Siamo di fronte ad un cinema, quello italiano, che fa bene il proprio mestiere, descrivendo con lucida consapevolezza, una inevitabile tristezza, ed una certa malinconia, lo stato comatoso di quella parte della nostra società che dovrebbe costituire la cabina di regia della nostra struttura di civile convivenza. Per questo, La grande bellezza meritava l’oscar vinto ieri per il miglior film straniero. Quello che attrae, nel personaggio interpretato da un bravissimo Servillo, è il piano di sensibilità in cui il protagonista si dimena, perché, pur con il suo indubitabile fascino, il suo controllo ed il potere ottenuto nel corso degli anni, con la sua perspicacia non può non percepire il decadimento del suo stile di vita e dell’ambiente che frequenta; la sofferenza interiore di Jep Gambardella incarna bene la crisi di identità del ns. Paese, e finanche, bisogna dirlo, il suo attuale declino. Perciò, riteniamo, nel film il titolo volutamente evoca la bellezza, laddove proprio bellezza non si intravede in alcun modo, in questa pellicola, e perciò si rimanda, in modo quasi ossessivo, alla bellezza perduta, quella della giovinezza; anche i vari personaggi femminili del cast non fanno altro che affermare questo preciso assunto: sono stanchi e deprimenti, sia nella loro interpretazione che su di un piano dell’evoluzione della propria personale carriera; si passa, solo per fare qualche nome, da una Serena Grandi davvero irriconoscibile, alla Ferilli dei nostri giorni che interpreta un personaggio che sa di consumare i suoi ultimi giorni di vita, sino al soggetto interpretato dalla Ferrari, sempre più avvezza ad interpretare una mesta cinquantenne da una botta e via, con le sue foto nude che meno male che non ce le hanno fatte vedere, per chi ha scolpito nel suo immaginario le scene dei filmetti giovanili con il sapore del mare.
Non v’è e non vi poteva essere bellezza, in La grande bellezza cupo e deprimente, ma ciò nondimeno intenso, cioè, nemmeno laddove solitamente la si trova a basso impegno cerebrale, ossia nell’estetica dei personaggi femminili del cast, peraltro assai nutrito ed ottimamente rappresentato, ma questo è il percorso intrapreso da Sorrentino, cui questa Roma salottiera sottomessa al Dio denaro (qualche volta in odore di mafia) ed ai prelati di turno che pasteggiano a champagne non piace, sino a fare esprimere il concetto da un bravissimo Verdone, finalmente nei panni di un personaggio secondario, con il suo buon faccione da padre di famiglia: “Roma mi ha molto deluso“.
La grande bellezza sembra quindi evocare, con le rughe ed il viso un po’ consumato del Servillo, la crisi di identità di un Paese che non ha saputo compiere il salto generazionale, in cui il potere, inteso anche in termini di rapporti e di chiavi di accesso a questo o quel privilegio (come le chiavi di accesso alle case delle principesse romane) è in mano a gente appagata, che non ha più stimoli né energie per produrre qualcosa di realmente buono, anche sul piano culturale e sociale; sovviene quì tagliente il ricordo della leggerezza del buon Marcello Mastroianni, inevitabile metro di paragone del Servillo dei nostri giorni, ed il confronto, impietoso, ci rimanda per davvero su un altro pianeta di colori e di sensazioni, poiché si passa dai toni grigi ed ombrosi de´La grande bellezza (film a colori) a quelli colorati della Dolce vita felliniana (in bianco e nero). Tutto questo ci potrebbe spingere, quasi involontariamente, a porci qualche sana domanda sull'(in)voluzione del genere umano, se non fossimo portati a rifuggire dai finali mistici con suore di 104 anni che salgono le scale sulle ginocchia. Laddove un tempo la pellicola ti trasmetteva positività ed energia per il futuro, oggi la storia introietta in se stessa tutto il malessere di un Paese che non riesce a darsi una scrollata ed uscire dal suo declino, ed allora ci viene da dire, con una certa nostalgia….aridatece Marcello. Per favore!
Antonio Mastroberti